Nel mio libro Sulle tracce della Dea che Nuova Ipsa Editore pubblicò nel 2018 mi sono fermata a raccontare, in parte con toni scherzosi, il processo di generazione umana secondo la concezione di Aristotele. In quel saggio, nel seguire le tracce lasciate dalle più antiche divinità femminili fino a noi, ho esaminato molti passi di disgregazione e degradamento della grande dea primeva, da cui ha avuto origine l’umanità, fino all’avvilimento progressivo del ruolo femminile sia in senso sacrale sia in senso sociale.
Nel processo generativo Aristotele attribuisce al seme maschile la funzione di agente attivo, alla donna e al suo apparato riproduttivo un ruolo passivo: essa si limita a fornire la materia per formare la nuova vita; il maschio, avente invece virtù formativa, agisce sul sangue uterino della femmina, tramutandolo in essere vivente. La donna è semplice fornitrice del materiale, riveste in pratica (è noto paragone) il ruolo della creta fra le mani del vasaio.
Questa storica concezione della generazione che vedeva l’uomo come unico riproduttore di vita (l’uomo è Padre) non lascia invece spazio all’attività della madre che, non possedendo ruolo attivo, resta semplice materia: è solo merito del seme virile il trasformare la materia da potenza in atto.
Questa drastica relegazione del contributo femminile a pura funzione materiale ha avuto conseguenze incommensurabili nella storia dell’umanità e ha inciso profondamente per secoli nel definire la significativa assenza di peso (e di diritti) della figura femminile nella società. L’ombra della teoria aristotelica ci perseguita ancora oggi.
Così è sempre un gran dispiacere personale avvicinarmi alle pagine di Dante in cui l’amato autore riprende le teorie aristoteliche, aprendo in tal modo una ferita nell’amore per la sua figura e per la sua poesia. Ma tant’è: Dante è anche questo. Stazio si staglia all’improvviso di fronte a Dante e al suo accompagnatore nella quinta cornice del Purgatorio, fra coloro che si sono macchiati del peccato di prodigalità., si presenta come Stazio e dice di essere autore della Tebaide e della Achilleide (rimasta incompiuta a causa della morte dell’autore). Aggiunge che l’ispirazione poetica gli venne dall’Eneide. Allora l’accompagnatore di Dante svela di essere proprio lui Virgilio. Più avanti, nel Canto XXV, Stazio espone la teoria della generazione, riprendendo la teoria aristotelica: il corpo umano viene formato dalla fusione del sangue attivo dell’uomo e di quello passivo della donna. Il sangue maschile, sotto forma di sperma, infatti, «scende dov’è più bello / tacer che dire», cioè «in natural vasello». Poi continua: «Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme, / l’uno disposto a patire, e l’altro a fare / per lo perfetto loco onde si preme; / e, giunto lui, comincia a operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fe’ constare».
È questa fusione (coagulo) a determinare nel feto l‘anima vegetativa, simile a quella delle piante ma che nell’umano continua a svilupparsi producendo gli organi di senso e estendendosi in ogni parte del corpo , andando a formare l’anima sensitiva: («…già si move e sente, / come fungo marino»). Poi, appena è formato il cervello, Dio infonde l’anima razionale, che va a costituire una indissolubile unità con l’anima vegetativa e quella sensitiva, come il raggio di sole unito all’umore della vite produce il vino. Quando poi l’uomo giunge al termine della vita («Quando Lachesis non ha più del lino…»– Lachesi è la parca che fila lo stame della vita) l’anima esce dal corpo, portando con sé l’umano e il divino, vale a dire le facoltà intellettive con quelle sensitive, ma mentre le facoltà sensitive rimangono inoperose, quelle intellettive si acuiscono, proprio perché libere da corporeità. Finalmente sciolta dal corpo l’anima può seguire la via verso cui Dio la manda.