(Articolo pubblicato sul mensile “Parole in rete” , giugno 2024)
Nel periodo appena trascorso Torino era bellissima; aggiungeva al suo fascino abituale una patina di brillantezza che la pioggia intensa e prolungata le regalava, lucidando l’ambiente di salotto aristocratico con una patina di cera luminosa. I turisti giravano soddisfatti, godendo anche dei nostri famosi lunghi portici, poi si fermavano e fotografavano. Poi fotografavano.
Poi fotografano. Poi fotografano. Di solito con il cellulare, o con apparecchi più sofisticati. Al pari dei cacciatori devono impossessarsi della preda, farla propria, a costo di ucciderne la vitalità e l’unicità: devono catturare per sé. A volte mi chiedo se davvero vedano ciò che hanno di fronte, o se lo vedano solo per fotografarlo, per possederlo. Mi chiedo quanto conti, per alcuni turisti, essere lì nel presente, in quella situazione, di fronte a una specifica opera d’arte, o quanto conti, invece, essere stati lì. L’essere stati lì è confermato dal loro certo possesso, provato dall’esito della foto.
Spesso quelle foto finiranno sui social, e daranno modo a chi le ha scattate di apparire, anzi esse contribuiranno in modo importante alla sua apparenza.Indipendentemente dal valore oggettivo che l’immagine potrà avere, essa contribuirà ad attribuire valore, importanza, forse persino perfezione all’esistenza di quella persona, che senza foto e senza social probabilmente rimarrebbe al di sotto dell’aurea mediocritas, e al contrario, grazie alle immagini, sarà degna di essere celebrata.
A pensarci bene questa storia delle foto, suggeritami dall’osservazione dei turisti, in realtà si applica a molte circostanze, non solo all’ammirazione di opere d’arte o di architettura, tanto grandiose per la loro unicità da suggerire una certa tolleranza per l’atteggiamento delle persone, ma si verifica, per esempio, anche di fronte a tanti meno nobili paesaggi: primi fra tutti i piatti di vivande. Non solo quelle consumate in ristoranti prestigiosi, ma persino più modesti hamburger serviti dalla solita catena di fast food. Cosa ci sarà di così magico e importante in queste vivande deteriori da renderle degne di essere storicizzate e immortalate non lo so, ma che ciò accada – lo vediamo tutti – sono certa. Mi chiedo perché noi umani siamo così poco ambiziosi da voler costruire il nostro particolare album di immagini con riproduzioni così scadenti, ma tant’è.
Ho detto album: che figura desueta! Ma chi mai ha un album oggi? Eppure, molti di noi forsennatamente fotografano. Basta sfogliare i social per constatare quante immagini di cibo passino davanti ai nostri occhi. Il cibo è sicuramente la materia che più è fatta per essere consumata, anzi il suo stesso scopo è quello di essere consumato, divorato, incorporato dalle bocche e poi assimilato dai nostri apparati: sarà dunque la sua più materiale vocazione a rafforzare il nostro bisogno di fissarlo in una prospettiva storica? Mi insospettisce questa lusinga che il cibo ci offre, facendosi credere immortale solo perché fissato in una foto. E mi insospettiscono tutti coloro che contribuiscono a diffondere questa moda, che ancora una volta va a sottolineare l’importanza di qualcosa che è sommamente caduco, specialmente materico, quasi ad affermare che solo ciò che appartiene al piano più basso, più tamasico della realtà vale la pena di essere notato, osservato, scambiato in un’immagine, fatto oggetto di attenzione.
Certo il cibo è quanto di più adatto alla fotografia, per i suoi colori e le facili sensazioni che subito scatena (per esempio acquolina in bocca), ma non sarebbe meglio accontentarsi di annusarlo, masticarlo, assaporarlo, gustarlo, viverlo attraverso i sensi nel momento presente in cui ci si trova, invece di sottoporlo a un comportamento ritualistico? Sì, capisco che il cibo, anche in fotografia, sia in grado di creare una sorta di socialità allargata, che inviti a una condivisione virtuale, ma…
Mi piacerebbe ergermi al di sopra di tali fotografi, ma temo che la mia eventuale tracotanza sarebbe un po’ ingiustificata. Infatti, se io mi domandassi: «Ma tu, furbastra, non fotografi nulla? Sei sicura di non farlo solo perché sei una schiappa di fotografa?», dovrei mettere la coda fra le gambe e tacere. La verità è che sono attratta da altri generi di vedute: i paesaggi di natura. E allora, mi domando, io che me la tiro tanto non sono diversa dai turisti incontrati in piazza Castello o dai maniacali fotografi del cibo.
E perché fotografo (sebbene molto poco)? Forse spero che domani, rivedendo l’immagine, oltre a cullarmi, esattamente come tutti gli altri, nel piacere dell’essere stata, potrò gongolarmi un poco nella sensazione di forza che l’immagine mi darà, potrò provare un sottile piacere percependo che lì, in qualche modo, la natura ce l’ha fatta, è rimasta intatta, ha vinto sull’artificio, ha resistito, ha vinto la sfida con l’opera dell’uomo.
E in quel momento proverò un brivido di piacere nel constatare il carattere originale di quella veduta.