TUTTI PIZZICATI DALLA TARANTA
(articolo pubblicato su Oltre, n. 35)
Tutti pizzicati dalla taranta
Intervista ad Aurora Lo Bue, ballerina di pizzica
Tutti pizzicati dalla taranta
Aperitivi pizzicati, feste e notti di pizzica in piazza, corsi di pizzica, lezioni di taranta.
No, non in Puglia. Proprio qui, da noi, in Piemonte.
Molti erano pronti a giurare che le vecchie forme folkloriche dell’Italia meridionale fossero destinate a morire per sempre, dopo gli anni di grande emigrazione dal sud al nord (anni ’60), con l’accettazione di modelli culturali più “moderni”: i santuari sarebbero decaduti per sempre, vuoti di pellegrini; le feste, religiose e pagane, sarebbero state liquidate in nome del progresso, così intollerante verso le espressioni arcaiche, e i riti della cultura urbana avrebbero prevalso su quelli contadini. Gli uomini, dopo aver finalmente stemperato i bisogni di dare sfogo alle proprie angosce attraverso occasioni rituali, avrebbero scelto la strada del pensiero logico e sarebbero stati così liberati dalle piaghe dell’insicurezza collettiva.
Però non è andata proprio così.
Le feste folkloriche meridionali hanno resistito, i rituali religiosi pure, le forme culturali e della civiltà industriale non li hanno sepolti e un certo grado di liberazione dalle pene e dal disagio non è stato ottenuto solo attraverso il rito urbano settimanale della partita di pallone.
Il latente razzismo di noi a nord dell’Italia verso alcuni modelli culturali del sud, che pure continua a esistere, non ha evitato negli ultimi anni una vera e propria disfatta del nostro gusto settentrionale a favore della più oscurantista tradizione etnografica del nostro sud e del “sud” di altre culture.
Tutto questo è successo passando, in un certo senso, “dalla finestra”.
E la “finestra” fu la danza.
È per la danza che hanno perso la testa i piemontesi e tutti i settentrionali: per la danza più meridionale e antropologicamente densa di significati della nostra Puglia, la pizzica, o taranta, come si usa oggi chiamarla; per la più meridionale delle danze praticate nella regione iberica, carica di storia altra che, giunta fino ai margini dell’Andalucia e alle porte delle Colonne d’Ercole, discende da terre lontane, il flamenco; e per quella danza del sud del mondo e delle Americhe, struggente e insinuante, maschilista e squisitamente scorretta politicamente, che è il tango.
Oggi ci dedichiamo alla taranta.
Deve il suo nome all’aracnide, a quel ragno nero, peloso e maculato, con un phisyque du role a dir poco bestiale, da primattore: la taranta o tarantola, appunto, che così spesso si nascondeva nelle pieghe dei terreni arsi, o fra le spighe che le spigolatrici maneggiavano, pronto a sconvolgere con il suo morso la vita delle persone.
E non tanto perché fosse davvero velenoso – in sé pare essere innocuo, anche se io stento a farne la prova – ma perché il suo morso era simbolicamente velenoso, poiché portatore di turbamenti del corpo e dell’anima.
Il tarantismo si perde in Puglia, risalendo la linea del tempo a ritroso, spesso giungendo fino al Medioevo e anche prima; originato dalla contaminazione di riti orgiastici e iniziatici pagani della Grecia antica, da tempo ha posto intriganti domande agli antropologi.
In che cosa consisteva dunque il tarantismo? In una crisi per cui il soggetto morsicato dalla taranta era dominato da una serie di malesseri e si sentiva costretto compulsivamente a muoversi, a danzare sul ritmo ossessivo scandito dai tamburelli e di altri strumenti. La tradizione popolare riteneva che solo la musica potesse lenire e poi guarire lo stato del tarantato.
Ma già usare l’espressione “tarantato” al maschile è assai improprio, perché il ragno sembrava avere una netta predilezione per le donne.
L’esecuzione musicale e l’intera cornice all’interno della quale si svolgevano le crisi e dove avveniva l’esecuzione musicale in realtà costituivano il quadro di un rituale magico-religioso.
Il fenomeno fu studiato sul campo dall’antropologo e storico delle religioni Ernesto de Martino, il quale giunse alla conclusione che il tarantismo funzionava come un dispositivo simbolico “mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come simbolo nevrotico, veniva evocato e configurato sul piano mitico-rituale”. Era, dunque una fase rituale vissuta dall’individuo, accettata e condivisa dall’ambiente sociale, che permetteva alle sollecitazioni dell’inconscio di trovare una via di sfogo. Al pari di altri rituali aveva dunque in qualche modo funzione catartica.
Nel caso del tarantismo il rito coincideva con la guarigione, vale a dire: il rito era terapia. La danza era, sì, l’espressione visibile di un disturbo, di un “problema”, ma era, allo stesso tempo, l’occasione della sua risoluzione.
Le tarantate al suono della taranta (o pizzica) vivevano la mimesi: si facevano ragno, si identificavano con esso e del ragno compivano i movimenti; poi inscenavano una sorta di morte rituale, liberandosi del ragno, opponendovisi con movimenti di conflitto, e attraverso la danza (forse) rinascevano. Almeno per un po’, almeno per un anno. Infatti il fenomeno aveva una dimensione stagionale, cadeva sempre nell’estate e si rinnovava di anno in anno, così che la tarantata avrebbe risvegliato la sua “malattia” nell’altalena della vita vegetale, secondo il ritmo della natura.
Oggi è possibile trovare sul web un piccolo gioiello della storia del cinema italiano documentaristico, e vedere un documentario prezioso registrato da Diego Carpitello nel 1964. S’intitola propria “La Taranta”; si avvale della fotografia di Ugo Piccone e, incredibile e dirsi, del commento di Salvatore Quasimodo, per la regia di Gian Franco Mingozzi. Per chi desideri una suggestione d’autore ne consiglio la visione.
Ciò che oggi stupisce (o non stupisce) tutti noi è l’immensa fortuna della taranta, o pizzica. Non più danza regionale, destinata all’oscurità della dimenticanza riservata alle cose fuori del tempo, ma danza ri-nata. La Puglia, terra del ri-morso, del morso che si perpetuava stagionalmente negli anni allo scoppiare del caldo dell’estate, ha condotto la sua tarantola fuori dai confini regionali. Ci ha pizzicati tutti. Folle enormi, soprattutto di giovani, si lasciano pizzicare per intere notti, al suono dei tamburelli, dei violini e delle fisarmoniche. Così sono state le notti estive dei giovani torinesi. Così è avvenuto un po’ dovunque.
Torino, città che ha fama di apprezzare e di aver sperimentato nel tempo molte diverse forme di magia, oggi sembra volentieri accogliere la magia di questa musica che può condurre alla trance.
Augusta Taurinorum, città dalla pianta romana, squadrata e razionale, oggi si fa anche un po’ salentina e non disdegna il ritorno di Dioniso e con l’ebbrezza dei sensi e delle emozioni che il dio distribuisce a piene mani attraverso la sua danza.
Intervista ad Aurora Lo Bue, ballerina di pizzica
Aurora Lo Bue, giovane torinese con origini meridionali siciliane è, come tutti i giovani di oggi, figlia di una cultura globalizzata. Eppure…
Ha da sempre interessi teatrali e antropologici; per motivi di studio è vissuta per qualche tempo in Cile, fra gli indigeni della minoranza etnica amerinda dei Mapuche. E lì, confrontando alcuni passaggi di riti di cura indigeni con quelli del teatro, che ama, si è convinta della continuità tra la dimensione rituale e quella performativa, che di fatto si compenetrano, e dell’importanza dei simbolismi rituali, come depositari di memorie sociali e come elementi di trasformazione.
Attratta anche dalla cultura meridionale del nostro paese, è venuta in contatto con lo studio del tarantismo. Il passo verso la danza, poi, è stato compiuto di getto. Ora è una ballerina di taranta, o pizzica.
Giornalista: Aurora, che cosa hai a che fare tu con il “veleno” della taranta? Non mi sembra che tu abbia molto da spartire con le donne che nel Salento, almeno fino agli anni ’50, erano ‘tarantolate’. Quelli erano tempi e luoghi molto duri, soprattutto per le donne, chiuse in un mondo di doveri e di lavoro. Il corpo femminile serviva solo per lavorare e svolgere il ruolo di madri: altro che balli! Non c’erano grandi cure per l’infelicità e per il disagio: non psicologia, non terapie, nemmeno tutte le esperienze di avvicinamento alla dimensione “spirituale”che oggi la nostra società ci offre. Allora il tarantismo poteva offrire una valvola di sfogo, un modo per dar voce alla crisi e ai malesseri, curarli e integrarli, all’interno di uno spazio legittimo, quello del rito; ma tu, perché sei stata attratta proprio da questa danza, forse un po’ ossessiva? C’è comunque il bisogno di espellere, magari simbolicamente, il veleno psicologico accumulato?
Aurora Lo Bue:
E’ vero, io ho poco in comune con le tarantolate del Salento, così come ho poco a che fare con le società rurali del Mezzogiorno. Eppure… eppure le danze del sud sembrano aver molto da dirmi, da insegnarmi, da curarmi. Sono legata in modo speciale alla pizzica perché è stata la prima delle danze del sud sulla quale ho cominciato a muovermi. Si è trattato sin da subito di qualcosa di più che un semplice piacere estetico: ne ho sentito le vibrazioni “nella pancia”. Da semplice hobby, il ballo è diventato presto un bisogno.
La pizzica di certo col tarantismo ha un legame indiscusso. La cura, la guarigione, l’espiazione, la catarsi generata dai ritmi fortemente ripetitivi di quella musica possiedono un’efficacia che sembra oltrepassare i confini temporali. La modernità ha le sue specifiche malattie, più o meno letali, più o meno evidenti, striscianti e camaleontiche: inquietudine, ansia, stress. Attraverso la musica e la danza si può, a mio avviso, reintegrare quella “crisi della presenza” di cui parlava de Martino sessant’anni fa: nel caos-mondo in cui si vive oggi si ha ancora più bisogno di ritrovare o ricreare delle situazioni rituali, spazi protetti cioè dove l’extra-ordinario è consentito, dove ci si abbandona, si vive un momento di puro ludus. E poi, perché credere che oggi ci sia più individualismo e meno comunità? Ciò che ho notato in questi ultimi tempi di frequentazione del mondo del folk, è proprio la sensazione di familiarità, comunione, comunità, appunto.
Vuoi raccontarci le sensazioni speciali che ti offre l’esecuzione della danza? Dirci che tipo di comunicazione si instaura fra ballerini?
Una sensazione molto bella e frequente che provo quando ballo, è il sentire, nello spazio pur ridotto dell’interazione della danza, le distanze che si accorciano, l’intesa che si crea senza i preliminari convenzionali di costruzione di una relazione. Sento che la comunicazione mediata quasi esclusivamente dal corpo e dai suoi linguaggi, più che dalla razionalità della comunicazione verbale, è mille volte più intensa, più autentica.
La coreografia nelle danze del Meridione è quasi assente. L’improvvisazione è fondamentale. Il repertorio di passi e figure è limitato. Eppure ognuno, con questi pochi mezzi a disposizione, può rendere personalizzata la danza. Spesso mi accade di notare le corrispondenze anche caratteriali e di personalità di chi conosco riportate nel modo di muovere i passi: è come se ballando un po’ ci spogliassimo, ci mostrassimo nella nostra intimità, grazie al contatto con quella dimensione corporea, troppo spesso trascurata e messa in secondo piano. Nella mia esperienza personale, l’esercizio del corpo, con il corpo, ha un’importanza cruciale. E’ un terreno di prova, forte, un’esigenza da coltivare… un veleno, forse, da buttare fuori, da “sudare”, o semplicemente da trasformare in un fluido benefico di energia.
In una conversazione precedente sono stata colpita dal modo con cui tu mi parlavi della pizzica, delle sue movenze, dei gesti coreutici e coregrafici e del fatto che tu, nel venire a contatto con questi dati conoscitivi, attuassi una specie di riconoscimento: una sorta di déjà-vu. Insomma, il ragno è animale sacro alla Dea Madre, tesseva il destino degli uomini: c’è stato un incontro destinico fra voi? Che cosa ha tessuto il ragno per te?
Il ragno ha tessuto per me una rete di fili che per quanto disordinatamente possano essere disposti, sembrano trovare un’origine comune… o forse è meglio dire uno scopo comune. Télos in greco vuol dire fine, scopo. Che anche tela significhi quel tendere verso un destino comune a tutti i fili…? Quando avevo meno di diciotto anni iniziai a studiare teatro e recitazione; quando, qualche anno dopo, frequentai un laboratorio di avvicinamento alla pizzica con un teatrante leccese, riconobbi il felice connubio fra la dimensione teatrale e performativa e questa danza, a me così nuova e così stranamente familiare. Poi in Cile ebbi coscienza che la sciamana che guarisce gli individui, compie gli atti di guarigione di maggiore importanza durante una fase di trance: la raggiunge attraverso il suono ritmico e ossessivo del tamburo percosso anche per giorni e giorni. Salute, malattia, trance, catarsi… ritornano.
Ora faccio parte della Paranza del Geco e entrando nel corpo di ballo della compagnia, ho avuto l’opportunità di mettere insieme i due elementi che tanto mi stanno a cuore: la performance, intesa come rituale esecutivo che trasforma sia chi agisce sia chi fruisce, e quell’universo di tradizioni di un sud che in parte, per le origini della mia famiglia, mi porto dentro.
Sì, il ragno sembra essersi dato da fare nel tessere una tela complessa…se poi penso alle facoltà curative attribuite al padre di mio padre (si dice che il nonno avesse poteri taumaturgici riconosciuti, che fosse in grado di togliere malocchi e risanare da disturbi vari, attraverso qualcosa che, dai racconti, sembra somigliare alla trance), i retaggi che mi porto dentro sono reali, i télos sembravo evidenti…
Ci stiamo rendendo conto che Torino è morsa dalla taranta: è tutto un ballare in gruppo la pizzica, suonare, suonare e ballare, senza sosta… Come ti spieghi questo nuovo gusto per questo ballo in gruppo che ricorda tanto le sfrenate danze delle Menadi, sacerdotesse di Doniso? C’è così tanto bisogno di intensificare l’attività e l’eccitazione emotiva? Secondo te, perché tanto successo?
E’ vero, anche Torino è stata morsa dalla taranta. Nel settentrione, sembra sempre più diffuso l’interesse per queste tradizioni che vengono da quel meridione un tempo disprezzato, da quella periferia nazionale che solo di recente sta riemergendo come possibile fonte di arricchimento culturale. Credo che in una certa misura queste danze e musiche offrano un “senso” altro rispetto alla tendenza: nella società dove trionfa la forma, sembra farsi spazio, in questi ambienti, una ricerca di autenticità, una volontà di creare aggregazione sociale, anche in contrasto all’individualismo crescente. Insomma, queste musiche e danze offrono uno spazio di integrazione, la possibilità di coltivare rapporti tanto semplici quanto profondi.
È probabile che il gusto per il ballo della pizzica sia in parte semplicemente un fatto appartenente alla moda, sebbene sia innegabile che questa danza possegga una bella fetta di fascinazione, dovuta al suo contenuto magico coreutico, e che abbia radici profonde nella tradizione. Non temi che diventi semplice fatto di consumo?
Soltanto di recente le tradizioni musicali e coreutiche del sud sono tornate alla ribalta. Si tratta di una moda, in molti casi. E c’è chi, con estrema scaltrezza, ha capito che su questo fenomeno si poteva costruire una qualche forma di business… La Notte della Taranta, ad esempio, è un evento di notevoli proporzioni che culmina in un grande concerto finale verso la fine di agosto a Melpignano, e attira migliaia di turisti: si tratta di un tipico esempio di commercializzazione della tradizione.
Tuttavia non mi sento di condannare l’attività economica che ruota attorno alle tradizioni salentine e del sud, in primo luogo perché spesso questa accresce e diffonde una conoscenza altrimenti perduta, e in secondo luogo perché sono profondamente contraria all’idea di “tradizione” come qualcosa di fisso, immutabile e impolverato. La tradizione (musicale, orale, popolare) non è un pezzo da museo. Le tradizioni si inventano e reinventano continuamente. La creatività con cui vari elementi culturali si possono combinare tra loro è impressionante e può drenare nuova linfa a queste tradizioni, che evidentemente hanno molto da dirci, ed esercitano indubbiamente un magnetismo su di noi per la capacità di creare sostegno relazionale, catarsi psicologica, benessere fisico.