UNITA’ D’ITALIA E NOMI FEMMINILI:
(servizio pubblicato su Oltre, n. 33)
Inchiostro invisibile delle Donne nel Risorgimento
Condottiere, diplomatiche e… teresine
Salotti risorgimentali
Risorgimento ed educazione, persino per le donne!
Salotti risorgimentali
Risorgimento ed educazione, persino per le donne!
Le donne piemontesi e l’educazione
Inchiostro invisibile delle Donne nel Risorgimento
Quanto mi piacerebbe scrivere un dettagliato e circostanziato articolo, lungo e pieno di nomi femminili, sulle donne del Risorgimento. E invece, nonostante le buone intenzioni, temo che dovrò faticare non poco a infilare una lista di nomi con desinenza in “a”. L’elenco può solo sembrare un poco più lungo, grazie al doppio cognome di qualche nobildonna.
Già, il Risorgimento non fu, per le donne come per gli uomini, un movimento di popolo, bensì un movimento di intellettuali, per lo più giovani, idealisti, creativi, pieni di ingegno e di fiducia nel futuro: un movimento, prima di tutto, di idee e di pensiero. E gli intellettuali, si sa, non fioriscono là dove la lotta per il pane si fa più dura.
A ben guardare le donne che si possono citare nel Risorgimento hanno tutte il doppio cognome, anche quelle che non erano nobili, perché vengono nominate con il loro cognome e con quello del marito. Avere un marito: condizione necessaria per esistere in un mondo in cui una donna, da sola, non valeva ancora un bel nulla.
Però una cosa va detta: se questa lista di nomi femminili sarà cortina, non è colpa delle donne, che al Risorgimento hanno partecipato, eccome: è colpa di una immensa omissione che il mondo maschile ha operato, dimenticando ciò che davvero le donne hanno fatto per il Risorgimento. Se il contributo che le donne di fatto diedero al Risorgimento è stato dimenticato, non è già perché non sia stato consistente e importante, ma perché la situazione di inferiorità sociale delle donne, la loro dipendenza dalla famiglia, le ha relegate in una posizione di riconoscimento marginale, ad opera del mondo maschile. Anche nella storia risorgimentale, come più in generale sempre nella storia, la lettura degli eventi e delle presenze è stata una lettura misogina, costruita esclusivamente sul versante maschile. Se qualcosa è stato documentato sulle donne, sembra che sia stato scritto con inchiostro che scompare.
Così, anche quando oggi si ricorda qualcuna di queste donne, le si ricorda, come sempre, non come persone, ma come mogli o come madri. Anita Garibaldi perché era la moglie del condottiero, Teresa Casati Confalonieri perché era la moglie di Federico Confalonieri, Giulia Beccaria perché… L’unica che di solito non è accompagnata da nessun nome maschile è la contessa di Castiglione: nessuno sembrava ricordare, nemmeno quando era in vita, che era maritata. E infatti le è stata attribuita la giusta nomea per una donna che pretendeva di essere indipendente, e non le sono stati risparmiati alcuni sfondi erotico-sessuali, si dice abilmente sfruttati da Cavour.
Conservo ancora gelosamente il libricino, con coccarda tricolore in copertina, che la scuola elementare mi donò nel 1961, al Centenario dello Stato italiano. Ricordo di averlo letto golosamente, di aver tremato fra quelle pagine alle sorti delle battaglie, di aver risuonato con tutte le trombe di quei racconti (ed erano tante!), di aver combattuto a fianco del mio eroe (Garibaldi); ispirata da quel libro osai (ahimè) dipingere su tela la mia opera prima, intitolata “La battaglia di Calatafimi”. Insomma, non esagero se dico che quel piccolo libro, scritto in caratteri minuti, ebbe un suo peso nella mia formazione.
Un po’ per vezzo, un po’ sul serio, l’ho ora ripreso in mano e, con una certa religiosità, ho riaperto quelle pagine. Cercavo, fra i miei preziosi tesori d’infanzia, qualche nome di donna, che giustificasse, in senso femminile, la mia passata adesione alla causa risorgimentale, che potesse alimentare, oggi, nell’età adulta, il fondamento di qualche certezza dell’importanza che il genere cui appartengo potesse aver rivestito, anche allora. Che delusione: non ne ho trovato nemmeno uno.
Mi devo rassegnare. Tuttavia ho la certezza che le donne operarono personalmente o a fianco dei loro familiari, e al pari degli uomini, soffrirono. Così proseguo la ricerca, ampliando la camera dei tesori perduti, dal singolo libricino a qualche scaffale della biblioteca di casa e, munita di qualche volume, mi risiedo alla scrivania.
Ora sono attorniata, alla mia sinistra, dal bel volto dell’eroina, cui è sempre andata la mia predilezione, fra le donne risorgimentali, Anita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva Garibaldi; un poco più in là dall’ovale stampato mi osserva la politica, la bella contessa prima nominata, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione mentre, spostata un po’ più sulla destra, scalpita, con un ginocchio piegato, Teresina.
Comincerò da loro a raccontare le donne del Risorgimento, e non già perché furono più importanti di altre, semplicemente perché la loro immagine e il ricordo della loro presenza in quel periodo della storia è rimasta nella memoria personale di chi scrive in modo più duraturo, e sono certa che ora queste donne non possono deludere il romanticismo patriottico, spudoratamente ingenuo, di una bambina che per mezzo secolo le ha portate nel cuore.
Di chi fossi più innamorata non lo so. Non sapevo, ieri come oggi, chi preferire.
Lo so che oggi ci sono ben altri miti; perdonatemi.
Condottiere, diplomatiche e…teresine
Anita, la condottiera: fu per lei che piansi, decenne, tutte le mie lacrime, identificandomi nell’eroina della nostra patria, accanto all’amato generale (amato, sia chiaro, da lei, ma anche da me). Si può dimenticare il primo amore?
A ripercorrere oggi la sua biografia, le righe che la riguardano mi lasciano un po’ perplessa: tutto quell’eroismo, che allora mi faceva impazzire e ribollire di passione, non ce lo vedo più. Possibile, mi chiedo, che fosse davvero questo, il mio modello di donna?
E anche il generale, suvvia, in qualche momento, persino un personaggio di feuilletton. Per esempio quando vede Anita sulla spiaggia di Laguna, sbarca, attratto dal magnetismo dei suoi occhi che da distante ha osservati con il cannocchiale, la cerca ovunque, e quando la trova, le si avvicina dicendole: «Tu devi essere mia». Ma insomma! Com’è che lei non gli ha mollato due sganassoni?
Eppure… come mi sembrava, un tempo, romantico!
Comunque: la diciottenne Anita non doveva pensarla come me, se non esitò un attimo a seguire l’audace marinaio trentaduenne, capitano di alcune piccole navi, che si dedicavano alla guerra corsara contro la flotta imperiale brasiliana. Fu lui stesso a raccontare tutta la storia nelle sue Memorie. Così, Anita decise di essere “sua” e si trasferì a bordo della nave del corsaro, e da corsara condusse una parte della sua vita. Il resto la trascorse da condottiera, accanto al suo compagno, con cui condivise, oltre alla famiglia e a lunghi periodi di indigenza, le spedizioni in più continenti, le marce a cavallo, le guerre. L’ultima campagna di guerra e di fuga le costò la vita.
Nel 1849 è con Garibaldi a Roma per la proclamazione della Repubblica Romana, che però avrà vita breve. Gli eserciti francese e austriaco vogliono ripristinare il potere papale e attaccano. Inizia la strenua resistenza dei garibaldini, ma infine sono costretti alla fuga: una marcia forzata attraverso la penisola. Garibaldi, Anita e il Capitano Leggero, fedelissimo di Garibaldi, rimangono insieme nella fuga. Anita è incinta, al quinto mese di gravidanza, sta male, ma deve affrontare l’ultimo calvario a cavallo, fra i sentieri di montagna, gli attraversamenti a guado dei fiumi, le lunghe marce a piedi. Quando arriva alla paludosa regione di Comacchio, così simile al luogo dove in Brasile era nata, perde conoscenza e, dopo un ultimo traghetto su una piccola barca, a soli ventotto anni, muore.
Al Gianicolo, il monumento della sepoltura la rappresenta a cavallo col figlioletto al collo in atteggiamento di galoppo. Per volontà del marito, nel 1859 le sue spoglie vengono trasferite a Nizza, dove Garibaldi pone il seguente epitaffio: “Al santuario venduto de’ miei padri avranno stanza le tue reliquie e d’altra donna amata, Madre ad entrambi, adornerai l’avello!”.
Il destino e la geografia sparpagliarano i loro cinque figli, riservando loro vicende di vita disparate.
Oggi, se alcuni toni zuccherosi che riguardano la nostra eroina ci sembrano melensi al pari di una telenovela, continua tuttavia a spiccare una certa forza da alcuni suoi ritratti: è sempre raffigurata accanto al suo uomo, in posizione paritaria, fianco a fianco, spesso sui loro destrieri.
Chissà, forse inconsciamente, le bambine di cinquant’anni fa hanno sempre colto quella promessa di emancipazione che la sua figura emanava dalle cornici.
La seconda figura femminile, Virginia, che colpì il mio cuore, era bella, bellissima, forse la più bella donna d’Europa. Non doveva essere uno stinco di santa: immensamente egoista. Ma era intelligente, intelligente e scaltra.
La sua data di nascita fu motivo di smemoratezza per lei stessa, ma non per i maligni (1837): occhi di intenso verde azzurro dalle sfumature ametista, una certa propensione per l’amore e mente lucida e fredda. Andò in sposa al conte Francesco Verasis di Castiglione Tinella e di Costigliole d’Asti, cugino di Cavour, il quale sapeva benissimo quale gatta da pelare andava a prendersi, ma era pazzo di lei, che non aveva ancora diciassette anni.
Nonostante il suo raffinato egoismo, la bellissima nutriva idee favorevoli per la causa risorgimentale, alla quale pare aver dato un contributo del tutto personale, se così si può dire, avvincendo con le sue arti l’Imperatore Napoleone III, e convincendolo poi a sostenere la causa dell’indipendenza italiana. Si dice che le sia stato sufficiente un incontro con lui di una mezz’ora, da cui uscì con una collana di perle a cinque giri, un appannaggio mensile di cinquantamila franchi e… una grande simpatia dell’Imperatore per la causa italiana. Del resto Cavour l’aveva implorata: «Non importa quali mezzi userete, ma riuscite».
Questo è ciò che venni a sapere qualche anni dopo la fine delle elementari. Meglio così.
Malignità, nient’altro. Malignità che non pesarono su di lei più che una piuma di cui farsi ornamento. Che non servirono per nulla a svilire la mia gratitudine verso questa eroina della causa italiana, né sull’immagine di grandezza che di lei mi ero formata, nell’atteggiamento di chi, valorosa diplomatica, lavorava fianco a fianco del grande statista Cavour. Del resto, come molti, conobbi il significato del nome di escort solo molto più tardi.
E poi, ciò che conta è rimasto nella storia. Nel maggio-luglio 1859, Napoleone III con l’esercito francese venne in Italia e aiutò a sconfiggere le forze austriache, e da questo si originò l’unificazione d’Italia (nonché il passaggio alla Francia della Savoia e della regione di Nizza!). Tutto il resto è regno del pettegolezzo.
Il terso personaggio che ha lasciato un impronta nella bambina di cinquant’anni fa non è altrettanto storico quanto i due precedenti, eppure ha aleggiato nei cuori dei soldati in periodo risorgimentale, più di molti personaggi la cui veridicità storica sia stata accertata. Ve lo ricorderete subito, non appena leggerete il ritornello: “ O la bella Gigogin col trollallarillarillallera/ oi la bella Gigogin col trollallarillalillallà…”.
Gigogin, diminutivo piemontese di Teresina, fanciulla quindicenne vista per un giorno e vagheggiata per sempre: era il 22 marzo del ’48, si dice, quando dal Piemonte arrivò a Milano per partecipare alle barricate. A Porta Tosa, si narra, scoppiò l’amore fra lei e Mameli. È lei che per la prima volta, almeno nell’immaginario popolare, intona la canzone e canta: “Daghela avanti un passo”, verso che incita a fare un passo verso lo straniero e a vincerlo. Lo straniero era, come sempre, l’Austria.
Sarà mai esistita Gigogin? E chi lo sa. Lei sparì, ma il canto rimase per sempre.
Salotti risorgimentali
Oggi, dire che fare salotto, tenerlo o parteciparvi, sia un’azione rivoluzionaria, farebbe ridere chiunque. I più educati atteggerebbero le labbra a sorriso. Abbiamo infatti un’idea di salotto, come di qualcosa di perfettamente inutile e perditempo. Cose per sfaccendati senza nulla di più importante da fare, cose per gente priva di degna occupazione.
Eppure due secoli fa non era così.
Dobbiamo immaginare un mondo senza radio né televisione, scarso di giornali, insomma privo di quei canali di comunicazione di cui oggi noi godiamo, e talvolta abusiamo, pur lamentandoci in continuazione. Ebbene, i salotti, erano quei luoghi in cui avveniva lo scambio di informazioni, sia di genere politico che mondano: gossip non era una parola usata, ma con ogni probabilità già praticata.
Non dobbiamo però pensare che i Salotti avesse accesso chiunque: pochi erano gli ammessi, solo coloro che avevano le carte in regola per prendervi parte: lignaggio, istruzione, cultura, in una parola, educazione. A parteciparvi era l’aristocrazia e l’alta borghesia. Buoni meriti per meritare un invito all’accesso erano le capacità intellettuali, artistiche, e letterarie. Ma per davvero, non per finta. Così, tanto per sgombrare il campo da dubbi o equivoci, che i tempi in cui viviamo purtroppo suscitano, sia chiaro che non servivano né cosce lunghe, né… come dire, disponibilità umana alle relazioni.
Il Salotto stesso esercitava una funzione educativa, formando gli ospiti a una raffinata arte della conversazione, nel rispetto dei ruoli. Gli ospiti invitati nel Salotto, a loro volta, erano legittimati dalla loro stessa presenza e partecipazione al gruppo, tanto da acquisire, con questa stessa appartenenza, rispettabilità. Insomma, diciamo che le cose andavano un po’ diversamente da oggi.
Fino a qui però ancora non è chiaro che cosa tutto ciò avesse a che fare con il Risorgimento. Ma va detto che, al di là del piacere per le riunioni periodiche dell’aristocrazia italiana, i Salotti assunsero presto un carattere politico esplicito.
Molti di essi diedero un contributo importante nella formazione e nella circolazione di idee indipendentiste, progressiste; in molti dei Salotti si coltivarono le amicizie di coloro che divennero tessitori e condottieri del nuovo Stato.
Capi indiscussi dei salotti, conduttrici delle conversazioni garbate ma sostanziose, mecenati artistici, furono le donne, le padrone di casa, regine incontrastate del Salotto, alle quali si doveva l’impronta particolare e riconoscibile delle caratteristiche degli ambienti. Il modo con cui le presenze s’intrecciavano, fra parole bene educate, era solo la padrona di casa a stabilirlo, consegnando al Salotto il segno della sua personalità e il suo tocco inconfondibile, e permettendo a idee e destini di svolgere le loro trame.
Si tennero Salotti nei principali città italiane.
A Torino, il Salotto forse più noto apparteneva alla baronessa Olimpia Savio di Bernsteil, la quale fu poetessa e scrittrice. Lo chiamò “Millerose”, dal nome del palazzo che era la residenza estiva dei Savio. Fra le frequentatrici del salotto vi era anche la marchesa Giulia Falletti di Barolo. La baronessa Savio tenne ogni settimana riunioni che avevano un carattere molto letterario, affollate di letterati e artisti e politici.
Annotò in un diario il mondo del suo Salotto, e questo è uno dei motivi per cui se n’è conservata memoria. Oltre al diario ha lasciato un carteggio in cui dialoga con molti personaggi italiani di rilievo. Nel 1909 il discendente di casa Savio, il barone Federico Savio, prese la decisione di ricavare un libro dalla ricca documentazione da lei lasciata: furono così date alle stampe le Memorie della baronessa Olimpia Savio, in due volumi, edito dai Fratelli Treves. Il libro fornisce notizie accurate della Torino del XIX secolo.
Risorgimento ed educazione, persino per le donne!
Prima dell’unificazione del nostro stato e della nascita del Regno d’Italia, tra la popolazione dei diversi stati preunitari, si annoverava un bel tasso di analfabetismo: più dell’80%, nelle regioni più sfortunate.
Fra tutti, il primato era riservato alle donne: solo una su otto maschi (o ancor più di otto) sapeva apporre la propria firma.
Fatta eccezione per l’aristocrazia e la borghesia, in cui le giovani fanciulle erano utili strumenti di tessiture sociali, attraverso i matrimoni, le donne, in buona sostanza, erano considerate negli strati inferiori della popolazione, alla stregua di bestie da soma. Che poteva loro servire la cultura?
Il loro destino era solo il lavoro, la riproduzione, l’accudimento dei figli, la cura della famiglia. Nulla di più inutile, dunque, del lavoro della mente. Anzi, l’istruzione poteva apparire persino pericolosa, di ostacolo alla formazione di una buona disposizione, nel soggetto femminile, all’obbedienza, qualcosa che poteva persino far venire dei grilli per la testa: un intralcio al servizio che le donne avevano il ruolo di compiere per la famiglia e, attraverso di essa, alla società.
Quando veniva fornita un po’ d’istruzione alle donne, riguardava, semmai, l’economia domestica e un po’ di catechismo: con qualche dogmatico insegnamento religioso avrebbero seguito con migliore aderenza le regole imposte.
Alfabeto e sistema metrico decimale giunsero molto più tardi, dopo l’unificazione e dopo la legge Casati, che prevedeva l’istruzione (persino!) per le donne.
Per la verità già Carlo Felice nel Regno di Sardegna aveva emanato nel 1822 un Regolamento che instaurava l’istruzione obbligatoria: ma tutto era rimasto su un piano puramente teorico. Infatti, non si passò mai alla realizzazione del progetto, per mancanza di fondi. Inoltre, nel periodo della Restaurazione, aleggiava un pesante clima oscurantista e la scuola era dominata dai Gesuiti. Unico segno di apertura fu a Torino la creazione di un collegio per la formazione d’insegnanti laici che, nel 1844, venne affidato a Ferrante Aporti, fermamente osteggiato da tutto il clero. Lo stesso Aporti fu il propulsore, in Piemonte, degli asili d’infanzia: nel 1831 ne aprì uno, con refezione, per i poveri.
A favore del Piemonte, peraltro, va ancora oggi il riconoscimento di una politica della cultura schiettamente nazionale. Infatti, nella regione, già nel decennio di preparazione dell’Unità, dal ’48 al ’59, si raccolsero gli spiriti più nobili, i quali erano consapevoli in modo profondo della centralità del problema dell’istruzione e della scuola (anche per i soggetti femminili), la cui risoluzione si vedeva con chiarezza camminare di pari passo con il Risorgimento della patria e con l’evoluzione dell’avvenire del Paese.
Malgrado molte lacune, le novità della legge Casati del 1859 non furono poche: venne istituita la prima scuola elementare per tutti, di quattro anni, con un biennio inferiore ed uno superiore; si insegnavano religione, lettura e scrittura, aritmetica e sistema metrico decimale, la lingua italiana, la geografia e la storia nazionale. Le Scienze fisiche e naturali si osservavano nell’applicazione agli usi della vita quotidiana. L’istruzione elementare era a carico dei comuni, restando pero’ di competenza del ministero della pubblica istruzione i programmi e le didattiche.
Una divisione si stabiliva ancora tra corsi per maschi e per femmine, in cui s’insegnavano anche i “mestieri donneschi”. Però la scuola, anche per le femmine, c’era. E scusate se insisto, ma davvero mi pare che proprio a quel punto si possa far risalire la vera rivoluzione per l’istruzione in generale, e in special modo per quella femminile.
La scuola elementare era obbligatoria per tutti ma occorrerà attendere sino al 1877 per ribadire il connotato di obbligatorietà.
È pur vero che, dopo l’unificazione dell’Italia, molte famiglie erano restie, o addirittura contrarie, ad accettare l’idea di un’istruzione per i figli, tanto più se femminile, convinte com’erano che per una fanciulla l’educazione fosse inutile; per di più recalcitravano a rinunciare al poco guadagno derivato dal lavoro minorile.
Tuttavia, furono soprattutto i figli del popolo e della piccola borghesia a usufruire al diritto pubblico allo studio, poiché l’aristocrazia e l’alta borghesia continuarono ancora per un po’ a fornire ai propri discendenti un’educazione privata, che veniva considerata di maggior valore.
Oggi, tempo in cui sta andando nuovamente perduto il concetto di una scuola di stato (la scuola statale non esiste più, è sostituita dalla scuola pubblica), credo che ci potrebbe fare un gran bene tentare un’immersione, per quanto breve, nelle idee pedagogiche del nostro Risorgimento, quando le menti erano fermenti di idee e i cuori fibrillavano di sentimenti generosi.
Siamo così sicuri di voler assecondare le idee che oggi circolano, nuovamente così favorevoli all’istruzione privata; siamo così certi di voler rinunciare a quanto l’Italia ha così faticosamente conquistato, con tante vite e tanto sangue? Davvero vogliamo rinunciare all’esercizio, da parte del popolo, di quei diritti che per 150 anni lo Stato ha concesso e garantito, attraverso un’efficace istruzione?
Non è più, la statalità della scuola pubblica, una condizione da preservare tenacemente, insieme con quello di obbligatorietà e di gratuità dell’istruzione?
Oggi, nella nostra zoppicante Italia, si tende a scordare che sono forse proprio le donne coloro che si sono emancipate di più, soprattutto grazie all’istruzione; nessuno più ricorda qual era la condizione della donna, nel tempo prima della scuola di stato, della sua obbligatorietà e gratuità. Sempre più spesso mi viene il dubbio che, di dimenticanza in dimenticanza, stiamo percorrendo dei vigorosi passi indietro.
Le donne piemontesi e l’educazione
Nel panorama risorgimentale a Torino si distinsero le opere educative di due donne che portavano lo stesso nome e, sebbene in modi diversi, lottarono per l’educazione delle donne: Giulia Falletti di Barolo e Giulia Molino Colombini.
Giulia Molino Colombini, torinese, fu letterata e educatrice; rimasta vedova con un piccolo appena nato, all’età di ventidue anni, divenne esperta in pedagogia, dedicò la sua vita al progresso dell’istruzione popolare, in particolare femminile. Si occupò essenzialmente dell’educazione della donna, per la quale sosteneva la necessità di una cultura larga e solida, e lasciò un segno sia con il suo operato, sia con i suoi scritti, fra i quali “Sull’educazione della donna” e “Lettere di una giovane madre che vuol educare da sé la sua bambina”. A Torino costituì la sezione femminile per lo studio delle lingue del Circolo Filologico.
Giulia Colbert di Maulevrier, sposata con il marchese Tancredi Falletti di Barolo, dedicò la propria vita alle donne: alle più umili e disgraziate, le carcerate. Si servì del proprio lignaggio, dell’affidabilità e del potere della propria famiglia per lottare, in ogni modo, per migliorare la condizione della donna in carcere.
La Torino risorgimentale, capitale del Regno, era bella; la vita vi scorreva dolce e intensa di animazione culturale. Ma solo per borghesi e aristocratici. Su una fitta rete di viuzze si affacciavano, poco distanti dalle vie porticate, abitazioni malsane e degradate, popolate di diseredati. Ieri come oggi, i più disperati non avevano nemmeno una casa dove abitare. Le donne, al pari degli uomini miserabili, vivevano di espedienti, furti, accattonaggio, cui si aggiungeva la prostituzione. Alle carcerate si dedicò Giulia di Barolo: ce ne rimane ampia testimonianza da parte di Silvio Pellico, che la conosceva bene, e scrisse “La Marchesa di Barolo nata Colbert”, a lei dedicato.
Nelle carceri Giulia portò conforto, cibo, abiti, e istruzione! A insegnare, instancabilmente, fu lei stessa, aiutata da un alfabetiere di grandi dimensioni.
Creò l’Ospedale di Santa Filomena per ragazze storpie e inferme. Poi creò per le donne “Il Rifugio”, aperto a quelle che chiedevano di essere ammesse e, trascorsi due o tre anni, ne uscivano, dopo aver imparato un po’ d’alfabeto e qualche mestiere. Nel Rifugio confluivano le Maddalenine. E sia chiaro che erano bambine sotto i dodici anni, che avevano già subito violenza e stupro da parte di familiari o estranei. Nella loro breve vita non erano mai state avvicinate da nessuno, prima, con l’amore che Giulia portò loro. Del resto l’aveva dichiarato a Tancredi, quando era giunta sposa a Torino: “Il mio giorno di vita non lo passerò ozioso. Andrò e cercherò gli afflitti”.