Articolo letto dall’autrice:
Dissimmetrie pericolose Sembra impossibile, ma la formazione del genere femminile in grammatica, in italiano come in svariate altre lingue, può non essere rispettoso del genere umano femminile. Da circa venticinque anni, vale a dire da quando si affacciarono alla riflessione nella lingua italiana le prime osservazioni circostanziate su questo punto, non si è fatta molta strada nel nostro paese in favore di un uso non sessista della lingua.
Recentemente la presidente della Camera Laura Boldrini, appena insediata nel suo ruolo in Parlamento, ha chiesto di essere nominata come “la presidente” e ha invitato i colleghi e le colleghe del mondo politico, nonché i giornalisti, a usare il femminile dei mestieri. In seguito, durante un incontro, ha anche affermato: “Non trovo giusto che donne che svolgono un ruolo, di vertice o no, non debbano avere un riconoscimento di genere, perché è il segno che vengono considerate delle ‘comete’: passeranno, tutto tornerà come prima, tutto tornerà al maschile”.
Quando affermiamo che la lingua italiana rimane una lingua intrinsecamente e fortemente sessista, l’affermazione si basa su due ordini di valutazione: quella dei dispositivi che la lingua mette in atto per parlare delle donne e quella sul modo con cui si parla delle donne. In questa categoria di brevi articoli mi soffermerò soprattutto sul primo gruppo, ma occorre dire che entrambe gli aspetti sono fortemente legati.
Sminuire il problema del sessismo linguistico, da parte degli uomini e talvolta dalle donne stesse, equivale a ignorare volontariamente ciò che da tempo non possiamo più ignorare, poiché ampiamente dimostrato scientificamente: il linguaggio è uno strumento di percezione, di classificazione, di creazione della realtà; esso condiziona non solo l’atto di comunicazione fra i parlanti, ma il pensiero stesso. La pesante marcatura della lingua in senso androcentrico si basa su una lunga tradizione in cui il maschio ha avuto un ruolo dominante, vincente nella professione e estroflesso verso la società; per contro in essa la donna ha avuto un impegno più modestamente investito su lavoro e relazioni sociali, e vissuto quasi interamente all’interno del gruppo familiare. Il risultato linguistico è tale per cui, per esempio, quando si parla di gruppi formati da uomini e donne, la lingua immediatamente rinuncia a segnalare la presenza femminile, accontentandosi di parlare di uomini, facendo coincidere, guarda caso, gli appartenenti e le appartenenti al genere umano, con gli individui marcati dal sesso maschile. In questo modo la lingua riesce a veicolare il concetto di una falsa neutralità, in cui uomo possa stare anche per donna, poiché lo comprenderebbe. Se ciò fosse vero, non dovrebbe funzionare anche al contrario? Non dovrebbe bastare dire donne per comprendere anche gli uomini? Ma non è così, e la lingua non fa che marcare, attraverso l’uso di un maschile grammaticale, spacciato per neutro, tutto il valore che il concetto di maschilità porta con sé
Ma siamo talmente abituate e abituati ad accettare la dissimmetria che non ci facciamo più caso. Intanto, però, la lingua lavora sull’attività mentale… dà forma alle idee, programmando e guidando, parola dopo parola, il pensiero degli individui.