A quanto pare noi umane e umani non siamo in grado di pensare se non per metafore.
Ce lo hanno spiegato il filosofo Mark Jonhson e il linguista George Lakoff: la metafora non è solo una figura del linguaggio, ma una forma di pensiero; in quanto strumento cognitivo essa ci permette di formulare operazioni concettuali. Ben lontana dall’essere un ornamento della forma, essa è un approccio sostanziale al pensiero e all’azione; incide sull’esperienza, spesso malgrado la nostra inconsapevolezza. Anzi, più ne siamo inconsapevoli, e di conseguenza agiamo secondo automatismi, più le metafore ci imbrigliano in linee di comportamento.
È anche vero, però, che la maggior parte delle metafore che noi usiamo trovano origine in basi fisiche e spaziali: vale a dire che esse non hanno una nascita arbitraria, ma si radicano in esperienze fisiche e territoriali, per divenire in seguito esperienze culturali.
Ecco dunque che gli stati emotivi positivi si associano a posizioni del corpo che si elevano verso l’alto (testa e spalle ben ritte, sguardo alto avanti a sé), mentre tristezza e depressione accartocciano il corpo verso il basso, lasciando atona la muscolatura, e portando lo sguardo verso il basso.
Allo stesso modo il benessere fisico si associa alla posizione ben eretta, mentre la malattia ci costringe a sdraiarci (giù). Lo stato di assoluta condizione orizzontale è la morte. Su è la posizione di chi ha il controllo fisico, di chi è forte e vince, mentre il vinto è a terra, è giù.
Se il livello di una sostanza in un contenitore sale, la materia aumenta andando su, diminuisce quando va giù, dunque l’arricchimento di una qualsivoglia cosa si caratterizza con l’andare su.
Alla stessa idea è correlato il concetto di benessere sociale. Il benessere personale infine, fatto di buona salute (su), di gioia (su), di potere (su), di ricchezza (su), è un insieme, per così dire, di su. Torniamo ora al concetto di maschile e femminile; il maschio umano è fisicamente più forte dell’esemplare femminile: più alto, più muscoloso, ecc. Non è improbabile che sulla base di elementi fisici di potere (e non solo su quelli) si siano fondate le basi della cultura patriarcale.
Proviamo ora a osservare i concetti di cielo e terra. Il cielo è fisicamente in alto, è su; la terra è in basso, è giù. Ora, nella nostra cultura noi attribuiamo al cielo determinate caratteristiche, tipicamente considerate maschili, e alla terra caratteristiche femminili. Così maschile viene etichettato come su, femminile come giù. Il tutto sembra assolutamente naturale, pertinente e corrispondente a certe caratteristiche volute da Madre Natura. Ma è proprio così? Forse ci fu un tempo in cui al cielo (su) furono attribuite impronte femminili e alla Terra (giù) dati di maschilità. L’antica lingua egizia ne conserva memoria.
Il cielo era femminile, era Nut. La terra era maschile, era Geb. Cielo e terra, per meglio dire ‘ciela’ e ‘terro’, se fosse possibile esprimerci così nella nostra lingua, erano fratelli. Si amavano e passavano tutto il tempo strettamente abbracciati. Stavano così premutamente avvinghiati che non lasciavano il benché minimo spazio fra loro dove la vita potesse prosperare. Ciò costituiva un problema. Allora il principio creatore, Atum Ra, “venuto da sé all’esistenza” dal principio delle acque (Nun) diede incarico all’Aria di intervenire per ovviare all’inconveniente. Ecco che che l’Aria calpestò per bene Geb e poi sollevò Nut, piegandola ad arco sulla schiena, sopra Geb. Così verrà raffigurata da questo momento nella cultura egizia, ornata di stelle, della luna e del sole. Nut rappresenterà nell’iconografia egizia il limite dell’universo al di là del quale non sarebbe potuta esistere vita; il sole attraverserà il suo arco ogni giorno prima di essere inghiottito da lei e rinascere all’alba, tornando a presentarsi nel mondo sensibile.
Davvero qualcuno può credere che il linguaggio non determini il pensiero?
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