Se n’è andato da poco il vagone “di Primo Levi”, che era situato in piazza Castello, a Torino, a pochi metri da Palazzo Madama dove, nella Corte Medievale, era allestita una mostra sul poliedrico intellettuale torinese: I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza. Sappiamo quale fosse il “più importante” mondo per il quale l’Autore era conosciuto in tutto il mondo e che egli ha permesso a tutti noi di conoscere: il mondo dei lager, dove lui era stato imprigionato, in quanto ebreo (ricorre quest’anno il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz).
Ora la mostra si è spostata a Fossoli, presso la Baracca recuperata presso l’ex Campo di Fossoli, dove sarà visitabile fino al 30 giugno.
Levi, com’è noto, fu antifascista e partigiano: nel 1943 Levi si unì ai partigiani della Val d’Aosta, militando in un gruppo di “Giustizia e Libertà”.
Fu chimico, scienziato e storico della scienza, curioso e attento studioso e osservatore di fenomeni scientifici: la chimica rimase sempre una pietra miliare della sua vita e in tempi e contesti diversi sembrò fornirgli la chiave per decifrare la realtà, per mezzo della lettura dei suoi segni attraverso la decodificazione e la ricodificazione attuata attraverso gli strumenti e il linguaggio della chimica.
Essa gli fornì, in un certo senso, una forma mentis, che gli consentiva in parte “di sciogliere l’enigma della materia”. E per Levi l’enigma della materia era un fattore minaccioso, sia se riferita alla realtà esterna, osservabile per ricavarne significati, sia se considerata come stato interiore dell’individuo: in buona sostanza un enigma da analizzare, smontare, controllare, e poi ricostruire e sintetizzare con una più matura consapevolezza, proprio come lo studio della chimica consentiva di fare. Per spiegare il suo rapporto con lo stato della realtà materiale, con l’aspetto della materia dentro e fuori se stessi, Levi adoperava un riferimento letterario al dramma teatrale Peer Gynt di Ibsen, e ad un suo personaggio, il Gran Curvo, il quale nel testo teatrale rappresenta la materia stupida, neghittosamente nemica come è nemica la stupidità umana, e come quella forte della sua ottusità passiva.
E a proposito di enigmi, il suo amore per la lingua lo portava ad essere raffinato enigmista, nonché costruttore di palindromi. Ma attenzione, non era certo il gusto per la complicazione a portarlo verso i giochi linguistici, bensì il desiderio di mettere a nudo le molecole della lingua, perché riteneva che solo un’attenta conoscenza analitica potesse portare al miglior uso della lingua stessa in senso comunicativo, ed esso non può che fondarsi sulla massima semplicità ed essenzialità. L’arte combinatoria di parole per Primo Levi non era dunque molto diversa da quella che serve a combinare atomi e molecole.
Del resto egli stesso espresse in molte occasioni la propria dichiarazione di poetica: vale a dire la concezione che egli aveva dell’arte della scrittura. Gli interventi furono raccolti in forma di articoli in L’altrui mestiere, dove si legge che scrivere è un produrre, anzi un trasformare. Ed affermava, a chi stupiva di un chimico divenuto scrittore, che egli scriveva proprio perché era un chimico.
Gianna Montanari negli ultimi mesi ha tenuto incontri sulla poesia di Primo Levi; abbiamo avuto una conversazione con lei; dice:
«Ho scelto di trattare della poesia di Primo Levi perché questo è uno degli autori che amo e perché credo che pochi conoscano le sue poesie, mentre moltissimi hanno letto Se questo è un uomo.
Ritengo che le sue poesie, raccolte quasi tutte in Ad ora incerta, meritino di essere conosciute: sono molto moderne e insolite, prendono come argomento il mondo in cui viviamo: Torino con le sue vie (non le più belle…); ad esempio in Via Cigna, una strada che probabilmente egli percorreva in automobile per andare a lavorare a Settimo, la via col suo traffico rallentato diventa metafora di un’eternità snervante, come snervanti sono le attese davanti ai semafori. L’uomo ha rotto gli equilibri naturali, quindi il poeta può cantare gli alberi ammalati della città, oppure i gabbiani di Settimo che hanno cambiato la loro rotta perché trovano nutrimento in abbondanza nella campagna inquinata che li porta dal delta del Po, a ritroso, in Piemonte».
Già, Levi è un grande maestro nel trattare i temi della natura. Sembra preferire a ogni altro argomento quello di piante e animali, e fra gli animali e le piante quelli più umili, talvolta perdenti, non si occupa mai di quelli supponenti e vincitori…
«E’ vero. Spesso alberi e animali sono protagonisti della sua poesia, oggetto del suo grande amore per la natura e del suo grande spirito d’osservazione; Levi sembra scoprirne l’animo nascosto o, meglio, dà loro un’anima, che è poi la sua: pensiamo a liriche come “Agave”, dove parla di sé l’agave, la pianta arida che viene dai climi tropicali e fiorisce di una fioritura bellissima, dopo la quale muore. “Mi capisci adesso?”, chiede l’agave, e in questa domanda c’è la consapevolezza che per giungere al fiore occorre un lungo, doloroso percorso, che alla maturazione in un’esplosione di bellezza segue la fine».
Ti piace la sua ironia, la leggera ironica tenerezza con cui tratta gli elementi di natura, “giustificando” le loro debolezze, le loro insufficienze, che li rende nei loro difetti così simili all’uomo? Non è una forse una forma di laica religiosità, di pietas?
«Certo, e le sue liriche sono spesso intrise di amaro sarcasmo; ad esempio in “Pio”, riferito al “pio bove” carducciano c’è il ribaltamento dell’immagine edulcorata dell’animale che il Carducci aveva immortalato in un celebre sonetto, c’è la parodia del poeta premio Nobel, diventato un vecchio un po’ rimbambito, e c’è la crudezza della realtà: il bue è un toro castrato: non c’è violenza maggiore che l’avermi fatto non violento, considera tristemente l’animale. Ma uno dei componimenti che amo di più è “La bambina di Pompei”, con tre immagini indimenticabili di ragazzine adolescenti la cui breve vita è distrutta dalla violenza della natura o dalla malvagità umana: è il caso di Anna Frank e della scolara di Hiroshima».
Naturalmente, non mancano nella sua produzione poetica i componimenti dedicati esplicitamente al lager.
«Sì, “Buna”, scritta pochi mesi dopo il ritorno in Italia dalla prigionia. “Buna” era il nome della fabbrica di gomma in cui Primo Levi aveva lavorato durante la prigionia, a Monowitz. Qui, come troviamo anche in altri testi, Primo Levi riecheggia versi dall’Inferno di Dante Alighieri: “lunga la schiera nei grigi mattini” ci ricorda la lunga fila di anime dannate che aspettano di varcare il fiume infernale, l’Acheronte. La voce delle sirene che all’alba svegliano i prigionieri riecheggia la scritta sulla porta dell’Inferno o la voce di Caronte, il demonio traghettatore che trasporta le anime. La Buna è l’inferno che priva gli uomini del loro valore e della loro dignità; un inferno da cui sembra impossibile uscire, tanto che il poeta chiede all’immaginario interlocutore: se dovessimo incontrarci ancora “lassù nel dolce mondo sotto il sole, con quale viso ci staremmo a fronte?”. Anche il “dolce mondo” deriva direttamente dall’Inferno dantesco, quello dell’incontro con Farinata degli Uberti, il grande capo ghibellino che risparmiò Firenze dalla distruzione.
E’ stato notato che le fonti poetiche principali di Primo Levi sono Dante, come appena detto, e la Bibbia. Sei d’accordo?
Il linguaggio biblico caratterizza la più celebre delle sue poesie, posta come epigrafe all’inizio di Se questo è un uomo. Già il titolo, “Shemà” è in ebraico e significa “Ascolta!”, ed è la prima parola della preghiera fondamentale dell’ebraismo. Qui l’imperativo è solenne. “Ascolta!”, dice il poeta al lettore, o, meglio, a “voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case”. Ascoltate e cercate di comprendere in quale abisso di degradazione fisica e morale sono stati precipitati gli uomini e le donne del lager; considerate se è un uomo, questo che lavora nel fango, che muore a un cenno delle SS; considerate se questa è una donna “vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno”. Non furono trattati come uomini o come donne, eppure – questo è il messaggio – erano uomini come voi, erano donne come voi. Meditate che questo è stato. Ripetete queste parole ai vostri figli. Guai a chi vorrà dimenticare che questo è stato, e qui i versi riprendono alla lettera la preghiera ebraica e minacciano la maledizione per chi non trasmetterà il messaggio (“o vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”). Purtroppo questi versi sono più attuali che mai, e ci chiediamo tristemente com’è possibile che gli orrori del lager siano superati da quelli che si verificano nel nostro tempo.
Raramente nelle sue poesie Levi eleva il tono delle sue parole, ma qualche volta, quando sembra volere che raggiungano i cieli o rimangano per sempre impresse, per incidere nella memoria di chi ascolta, lo fa: allora anche il suo poema ha uno scarto improvviso di tono, sale di colpo su piani per così dire “superiori”. Sei d’accordo?
È abbastanza raro in Primo Levi l’uso di un linguaggio così alto e solenne; anche nella poesia, oltre che nella prosa, adopera spesso un linguaggio quotidiano, colloquiale, sommesso, che improvvisamente si eleva a invettiva o a dolorosa constatazione. E qui voglio ricordare ancora una poesia dedicata al lager e al ricordo indelebile nella memoria di chi l’ha conosciuto. La poesia s’intitola “Alzarsi”, è del gennaio 1946 ed è posta come epigrafe a La tregua, il racconto dell’avventuroso ritorno di Primo e dei suoi compagni dopo la liberazione del campo; il componimento si comprende meglio leggendo l’ultima pagina del libro, scritto tra il 1961 e il ’62: qui l’autore ci rivela che anche ora che ha ritrovato il calore della sua casa, gli affetti, gli amici, un sogno pieno di spavento viene ad intervalli a turbare i suoi sonni: all’inizio del sogno il poeta è felice, nella sua casa, con la sua famiglia, ma un po’ alla volta la felicità si sgretola, si rivela essere stata un sogno ingannatore; lui è ancora nel campo e presto, al risveglio, risuonerà sommesso un ordine inflessibile: “Wstawać” (in polacco “Alzarsi!”). Come interpretare il ripetersi del richiamo? Forse il presagio della fine, oppure il ripetersi dell’incubo».
Sono relativamente poche le poesie che hanno come tema diretto la prigionia; dove si trova traccia delle sue esperienze di lager. Eppure, Theodor Adorno, a tal proposito, sosteneva che non era più possibile fare poesia dopo Auschwitz se non parlando di Auschwitz. Come e dove ne parla l’Autore?
Praticamente in tutte, perché in tutte c’è un dolore di fondo che rimane sottinteso; anche nelle composizioni dedicate alla moglie Lucia Morpurgo o agli amici in sottofondo rimane sempre la “memoria dell’offesa”. «Alcune poesie hanno una particolare, brusca dolcezza, e sono quelle dedicate a Lucia. “Sono tornato perché c’eri tu”, dice in “11 Febbraio 1946”: sono tornato – le dice – perché il tuo esistere, prima ancora di conoscerti, è stato l’ideale che cercavo nelle stelle, è stato la forza che mi ha permesso di sopravvivere e di rifiutare la bastemmia insensata che il mondo fosse una sbaglio di Dio, e io, Primo, uno sbaglio del mondo. Molti anni dopo, a un compleanno della moglie, scrive “12 luglio 1980” e con dolcezza la prega di accettare quei 14 versi. “… sono il mio modo ispido di dirti cara, e che non starei al mondo senza te”».
Un “modo ispido”, davvero? Levi ha molto parlato del suo modo di “fare scrittura”, del suo rapporto sia con la prosa sia con la poesia, in documenti come in interviste. Si è sempre definito un chimico della scrittura. Come un chimico, ha scomposto emozioni ed esperienze trasformandole in parole. Lui diceva che la chimica l’aveva abituato a formarsi un abito mentale “di concretezza e di precisione” e l’aveva portato a una costante volontà di approfondire qualunque concetto o immagine o metafora. Che cosa pensi dell’apparente semplicità del suo stile poetico?
Se analizziamo il suo linguaggio poetico ci rendiamo conto che nessuna parola è scritta per caso, ogni parola è per l’Autore quella giusta al posto giusto. Quando “l’opera” è finita non bisogna modificare nulla (“Ora basta, il lavoro è finito, rifinito, sferico. Se gli togliessi ancora una parola sarebbe un buco che trasuda siero”); quello del poeta è “un mestiere” vecchio sessanta secoli e sempre nuovo; quando arriva l’ispirazione “i versi ti ronzano intorno, come falene ubriache; una viene alla fiamma e tu l’acchiappi”. «Il suo stile è lontanissimo da quello “classico”, con le rime tradizionali e i temi sentimentali, è piuttosto uno stile narrativo anche in poesia, prosastico, che può ricordare il Pavese di Lavorare stanca, frutto di una raffinata ricerca linguistica e logica, volta a trovare le parole giuste per il proprio tempo. Il tono è colloquiale in prima battuta, ma spesso sarcastico o umoristico in senso pirandelliano, di un umorismo per cui prima si sorride, poi, leggendo meglio, si avverte il dolore dell’esistenza, comune sia agli uomini che agli animali».
Si sta avvicinando la data del 25 aprile, mi sembra opportuno ricordare “Partigia”, del 1981, dove Levi parla della Resistenza rivolgendosi ai suoi vecchi compagni di lotta, “partigia di tutte le valli” in termini poco eroici.
Già, che cosa fanno adesso i vecchi partigiani? C’è chi compra e vende terreni, chi rosicchia la pensione dell’Inps, chi trova un impiego fittizio (“si raggrinza”) negli enti locali. Non è questa l’eredità della Resistenza, e il richiamo di Primo Levi si alza con forza: “In piedi, vecchi, nemici di voi stessi: la nostra guerra non è mai finita”.
Gianna, vogliamo condividere il monito?
IN PIEDI, VECCHI NEMICI DI VOI STESSI!