Grazia Valente ha intervistato Letizia Gariglio, autrice della raccolta di poesie Amaritudine:
L’ottica proposta nelle tue poesie è quella femminile. Perché questa scelta?
Chi più delle donne è campione di amaritudini? Non so se le donne siano le vere esperte dell’amore, ma sicuramente lo sono del disamore, inteso come indifferenza, scarsa valutazione, disconferma. Non vi è donna che non abbia dovuto comprendere in fretta nella vita di dover faticare per vedere riconosciute le proprie capacità, ma anche la propria importanza nel nucleo familiare, nella società in genere. La disconferma che si attribuisce ad un intero genere – quello femminile – è determinato dalla assimmetria sessuale che l’umanità ancora vive, e che dà diverso valore al maschile e al femminile (al femminile molto meno). Dove meglio le donne conoscono la condizione del disamore è nel loro rapporto con il partner, dove non è affatto raro che ancora oggi subiscano gli effetti del tradimento, della strisciante abitudine maschile alla poligamia, dell’abbandono. Guardatevi attorno: il mondo è pieno di donne sole, che si allevano da sole i figli, eppure non per questo ricevono migliori riconoscimenti dalla società.
È chiaro che queste poesie nascono anche da esperienze personali ma, come dico nella premessa al volume, io scrivo di storie individuali che sono il risultato di molte storie che si mescolano. Le donne raccontano, parlano – indifferentemente in prima o in terza persona, e l’effetto è una somma corale: nel dare la propria voce si uniscono in una voce sola. È comunque il punto di vista dell’universo femminile a prevalere: illusioni, abbandoni, indecisioni, pregiudizi, presunzioni.
Che valore ha avuto per te questo percorso di scrittura poetica?
Una funzione importante: è stato un percorso di evoluzione, di purificazione, se vogliamo, che mi ha portata dapprima a contatto con le forme più spesse, più grezze, della sofferenza, e poi via via mi ha consentito di inoltrarmi in un percorso di autoconsapevolezza, di elevazione spirituale, se mi è consentito l’aggettivo, mi ha permesso di superare i confini dell’ego, di riconoscermi goccia d’acqua nel mare – anche nel mare del dolore femminile, e di penetrare infine oltre i confini della pura individualità, verso un Tutto.
Si è trattato dunque di un lungo dialogo fra coscienza e inconscio o, se vogliamo dirlo con termini più vicini a quelli junghiani, di un processo di individuazione, compiuto attraverso la scrittura poetica, grazie alla scrittura poetica. Coscienza e inconscio si sono reciprocamente aiutati, senza prevaricazioni dell’uno sull’altro, con piccoli passi, momentanei grandi balzi, regressioni, ribellioni, nella ricerca di integrazione dell’io diviso e nella ricostruzione della pienezza della personalità. Molto aiuto è venuto dal mondo del mito, e da alcune forme di religiosità (non appartenenti alla comune tradizione occidentale), dai suggerimenti archetipici di una forma femminile primeva di divinità, che hanno sostenuto il processo di integrazione fra le parti.
Come definiresti il tuo modo di fare poesia?
Questa è davvero la domanda più difficile. Credo sia giusto da una parte dire che è poesia lirica, perché esprime in modo soggettivo il sentimento di chi scrive. Ma è anche poesia narrativa, nel senso che racconta delle storie, non sempre soggettive, anche quando narra paesaggi interiori.