Dislessia fra relazioni famigliari e abilità dell’apprendimento (Educazione e formazione) di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile di cultura “Parole in rete”
Difficoltà a percepire suoni, riconoscere e scrivere segni (compresa l’abilità motoria della scrittura): ecco i sintomi riconosciuti nella dislessia, ritenuto da molti come un disturbo biologico con base genetica, o, più ampiamente, come un disturbo con cause sia biologiche sia cognitive tuttora non del tutto sviscerate.
È un disturbo stabile, non momentaneo, e si può esprimere come disgrafia (si scrive male), come disortografia (si scrive con numerosi errori), discalculia (si hanno difficoltà a scrivere e operare con i numeri). Viene ritenuto probabile che i bambini i quali manifestano nell’infanzia disturbi della parola (storpiano le parole, anche quelle che non costituiscono difficoltà per i compagni) potranno peggiorare nel corso degli studi: si è di fronte ad indizi che lasciano sospettare un’evoluzione non positiva, un peggioramento della situazione nel tempo, nella successiva fase di apprendimento della lettura e della scrittura. Se nel tempo l’acquisizione degli automatismi della lettura e della scrittura costituiranno un problema, si scateneranno a partire di lì una serie di problematiche connesse: sarà più difficile comprendere i testi letti, sarà più lenta e difficoltosa la memorizzazione dei dati (di definizioni, o di termini che servono ad esprimere adeguatamente i concetti, per esempio), oppure la manipolazione dei numeri e delle operazioni aritmetiche.
Se si tiene conto che con il procedere del percorso scolastico aumentano le complessità, si intuisce come le difficoltà dei “dislessici” possano aumentare nel tempo.
Per i “dislessici” la parola non è lo strumento più idoneo e più naturale per veicolare i contenuti da apprendere: ascoltare, leggere, scambiare informazioni attraverso la parola, esprimere, comunicare sono aspetti di una capacità, quella linguistica, che deve essere supportata e aiutata. Se pensiamo che il linguaggio è alla base della trasmissione di conoscenze e delle attività didattiche si capisce quali problemi possano essere connessi.
Spesso al fenomeno della dislessia si associano altri problemi, che riguardano il sistema individuale di organizzazione dello spazio e del tempo, l’orientamento di sé e di altro nello spazio, l’utilizzazione corretta del concetto di destra e sinistra, scarsità del senso ritmico, che comprende anche l’abilità di ripetere schemi ritmici. Si relaziona con la dislessia una lateralizzazione della persona un po’ imperfetta (o piuttosto imperfetta), non ben definita, variamente combinata nella prevalenza di lateralità fra occhio, orecchio, gamba, piede, ecc., ma che si compie sostanzialmente in modo non armonico.
Alcune disabilità grafiche si manifestano con la confusione di lettere simili ma invertite nello spazio (la “b” e la “d”, per esempio, oppure la “s” e la “z”), dove l’organizzazione dello spazio della grafia prevede una certa abilità di orientarsi bene fra direzione verso sinistra e direzione verso destra.
All’allievo “dislessico” viene spesso suggerito l’uso, a scuola e a casa, di un software compensativo, a partire dalla fascia dei più piccoli, vengono consigliati spesso strumenti per lo studio (ad esempio finalizzati alla creazione di mappe) o per la scrittura matematica e software generici di supporto per il potenziamento della lettura e della scrittura.
Sono attivi gruppi associativi, talvolta si realizzano campus estivi per bambini e ragazzi con il problema dislessia. Esiste anche un Premio Letterario (“Una città che scrive”) che riserva una sezione speciale dedicata al tema “Dislessia e dintorni”. L’Università di Ca’ Foscari ha proposto per l’estate 2018 una sessione estiva del Masterclass Deal, corso di alta formazione per aiutare negli studi gli studenti con disturbi di linguaggio, nello studio delle lingue, siano esse lingue materne, classiche o straniere.
In Italia la legge 170/2010 determina e sancisce il riconoscimento dei DSA, vale a dire dei disturbi specifici di apprendimento (così viene definita la dislessia): la legge tutela gli studenti di ogni età che abbiano questo problema. Occorre che il loro disturbo sia riconosciuto e diagnosticato da un team di esperti (neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista). Di solito la diagnosi non viene pronunciata prima della fine della seconda classe della scuola primaria, perché prima dell’età corrispondente non avrebbe senso applicare test.
Nella scuola italiana le diagnosi dei casi di dislessia sono sempre più frequenti e, sebbene il Ministero Superiore della Sanità attesti una presenza di dislessici al 3,5% fra l’intera popolazione scolastica, all’interno della scuola serpeggia la sensazione che le problematiche riguardanti la dislessia siano sempre più numerose. Molti insegnanti, molti pedagogisti si domandano: perché? Perché sempre più bambini e ragazzi sembrano essere affetti (del tutto o almeno in parte) dai quei sintomi che abbiamo descritto poco sopra? Ci si domanda: tutti questi studenti in difficoltà con l’abilità del linguaggio sono davvero dislessici? Perché un tempo non si percepivano tutti questi problemi?
Inoltre: i casi di dislessia riconosciuti sono tutti davvero tali? Può esservi sovradimensionamento del problema? E la domanda è spesso accompagnata dal dubbio che il mondo scolastico sia eccessivamente medicalizzato.
Occorre domandarsi se la dislessia sia dunque una malattia. Appare sicuramente come un disturbo, ma non può essere definita una patologia, perché non è rilevabile con esami di ordine chimico o fisico o per mezzo di strumenti di analisi di tipo neuro-radiologico, che possano rivelare in modo scientifico delle anomalie.
Se noi consideriamo la “normalità” dell’apprendimento della lettura e della scrittura come la più frequente condizione di coloro che leggono o scrivono, siamo indotti a considerare la dislessia come un allontanamento da questo indice di normalità: ciò è ovvio. Però: è giusto considerarlo un disturbo?
Non sarebbe più corretto considerare la dislessia semplicemente come una caratteristica personale? Esistono persone che hanno il senso del ritmo, altri ne sono privi; ci sono gli “stonati” e quelli che cantano benissimo; c’è chi ha vivo senso dell’orientamento e chi si perderebbe in un bicchier d’acqua; chi disegna benissimo e altri che non riescono a delineare nemmeno la casa col tetto; così vi è chi è portato a leggere e scrivere in modo fluente e chi fatica a riconoscere e a collegare il suono di lettere, sillabe, parole. Non andrebbe dunque catalogata la dislessia come semplice caratteristica individuale?
Perché nella nostra scuola e nella nostra società viene considerata come disturbo? Se anche vogliamo chiamarlo così, personalmente ritengo che i disturbi non siano mai indipendenti dal momento storico e dalla società in cui si presentano: non trascendono luogo, tempo, circostanze.
La nostra è una società che basa la propria comunicazione principalmente sulla forma scritta; la trasmissione culturale avviene nella forma privilegiata della parola pubblicata (i libri). Ma immaginiamo un’ipotesi diversa, immaginiamo di muoverci in un mondo in cui fosse esclusa la trasmissione in forma scritta, allora potremmo supporre quanto segue: la dislessia non esisterebbe in una siffatta società. Ma non è così.
Si afferma che i casi di dislessia siano abnormemente aumentati negli ultimi cinquant’anni, ma è vero anche che nel corso degli stessi anni si sono consolidate le abitudini di frequentazione della scuola dell’obbligo: in Italia l’introduzione della Scuola Media Unica risale al 1962; prima di quel momento esisteva un rigido sistema scolastico selettivo, eredità della Riforma Gentile. L’ingresso alla (vecchia) Scuola Media era oltremodo selettivo; in parole povere: alla scuola media neanche ci arrivavano i dislessici, non ci arrivavano in ogni caso quelli che potevano presentare il benché minimo problema di apprendimento. La divaricazione avveniva alla fine del corso elementare.
La riforma della scuola media fu senz’altro una conquista storica in termini di raggiungimento di un’opportunità di uguaglianza per la popolazione studentesca; l’eliminazione di principi meritocratici per l’ingresso alla scuola media ebbe il risultato di potenziare una più ampia espansione dell’istruzione di base, integrò le disabilità, ma l’immissione di tutti gli studenti in un tipo unico di scuola dell’obbligo abbassò drasticamente la qualità dei contenuti dell’istruzione. Tuttavia non eliminò la specificità della predominanza del canale verbale nell’istruzione.
Ora, noi sappiamo benissimo che la trasmissione della capacità linguistica dipende in gran parte dall’ambiente in cui l’individuo si forma: un ambiente, per motivi diversi, depauperato, porta ad un uso depauperato della lingua.
Torniamo al concetto di “normalità”: esiste un livello “normale” dell’uso della lingua? E che cosa può significare l’aumento dei casi di dislessia: forse un vissuto di disagio psicologico, può essere il segno di rapporti problematici in seno alla famiglia di origine?L’esplosione delle diagnosi (e delle certificazioni dei disturbi specifici di apprendimento) in Italia non va di pari passo con quelle di altri paesi. La certificazione tende senz’altro a sollevare in parte gli insegnanti dalla responsabilità di aiutare l’alunno a compiere con successo il proprio percorso scolastico, ma aiuta soprattutto i genitori, sottraendo una parte della loro piena responsabilità educativa; solleva infine l’allievo stesso dalla responsabilità di rendere attive le proprie potenzialità, creando un atteggiamento psicologico di ripiegamento su se stesso, lo abitua pericolosamente a pensare che “altri”, un aiuto esterno, possa intervenire in sua vece: oggi la facilitazione avviene qui… domani, chissà… qualcuno arriverà…e ciò contribuisce diseducativamente a creare la psicologia dell’assistito.
I problemi emergono con forza nella scuola perché la scuola è un concentrato di persone, un crocevia di situazioni, ma il problema si è generato a monte, in famiglia, dove padre e madre hanno abdicato al loro ruolo genitoriale, contenitivo, educativo. Quanti genitori alla deriva si incontrano nella scuola! È una realtà difficile da immaginare per chi non abbia svolto il ruolo dell’insegnante e dell’educatore e si sia trovato a contatto con realtà estremamente complesse. Eppure i genitori sono sempre meno coscienti del proprio ruolo educativo; nella scuola i problemi esplodono e, di fronte a difficoltà che sembrano insormontabili, si preferisce affidare la risoluzione dei problemi ai medici, agli psicologi, ai logopedisti, ai neuropsichiatri, vale a dire a tutti coloro che, pur essendo esterni alla reale quotidiana vita scolastica, ma essendo investiti dalla pellicola della “scientificità”, vengono autorizzati a svolgere un compito apparentemente “oggettivo”.
La preoccupazione di molti pedagogisti e degli insegnanti che si impegnano nel loro ruolo con costanza è, al contrario, quella della eccessiva medicalizzazione del problema. Già in altri paesi si sono realizzate condizioni di cura che gli insegnanti italiani temono oltremodo: i disturbi di apprendimento, accompagnati da disturbi dell’attenzione, vengono pesantemente trattati altrove con psicofarmaci.
Forse il modo migliore per aiutare i ragazzi con problemi di apprendimento potrebbe essere quello di aiutare i genitori a svolgere il loro ruolo, in una società che li allontana sempre di più dalla voglia di impegno e sacrificio per i figli.
Bisogna riflettere fra educatori, genitori, insegnanti, psicologi ed altri esperti del settore sul fatto che la dislessia, al pari di altre manifestazioni della personalità, che in ambito scolastico si manifestano più o meno visibilmente, possa essere correlata alle dinamiche parentali all’interno delle relazioni famigliari.
(ottobre 2018)