Avari di mente di Letizia Gariglio, tratto dal mensile “Parole in rete”
La natura ci ha dotati di sistemi che ci spingono in modo istintivo alla ricerca di azioni legate alla sopravvivenza delle specie, facendo sì che alcune aree cerebrali siano responsabili della sensazione di gratificazione, derivata da un determinato compito o azione. Un centro importante per il nostro senso di gratificazione è il nucleo accumbens, che quando è stimolato con mezzi naturali, come il cibo, o il sesso, o l’amore materno, produce benessere, piacere. Oltre agli stimoli naturali, altri stimoli possono accendere i circuiti della gratificazione: sono quelli delle dipendenze: sostanze come gli oppioidi o i cannabinoidi, l’alcool, il fumo, ma anche lo shopping, il gioco d’azzardo e… gli strumenti tecnologici.
Quando ci abituiamo a intossicarci di tecnologia fin da giovanissimi, da bambini e da adolescenti, (periodo in cui davvero un rapporto troppo stretto con gli strumenti tecnologici può essere pericoloso, per il fatto stesso che ci si trova in una fase dello sviluppo molto delicata), l’abitudine può diventare patologica e aprire la strada verso successive sindromi comportamentali.
Innanzi tutto è evidente che il permanere a lungo sulla Rete (come la stragrande maggioranza degli adolescenti fa) va a discapito della vita sociale e della vita reale, delle esperienze di scuola e di relazione. Il sistema inventato da Facebook o da Instagram, che prevede attraverso i like una risposta reattiva che funge da ricompensa, va per l’appunto a stimolare quell’area del cervello cui corrisponde la sensazione del piacere; ecco perché è così difficile staccarsi, anche se da semplici social, che fanno leva sul bisogno dell’essere umano di amicizie, seppure virtuali: tanti like, o commenti, o notifiche, stanno a significare altrettanti amici, in un mondo – quello virtuale -, che si può contrapporre a quello reale, pullulante di difficoltà. Aggregati in Rete, si può snobbare una realtà che può esserci nemica, dove ostilità, doveri, responsabilità ci attanagliano. Se si sta in Rete non occorre uscire per trovare amici, non occorre rendersi gradevoli, puliti, piacevoli, non occorre guardare negli occhi, rispondere a input o inviarli, parlare in modo più complicato di quello trogloditico, si può stare isolati in camera, senza essersi lavati e messi in ordine: tanto, gli amici non ci vedono e non possono apprezzare con i sensi la nostra presenza. Rischio: l’isolamento.
Ma che ne sarà delle competenze relazionali di quel tipo di ragazzo o delle sue competenze affettive, se tenderà sempre più all’introversione? Come imparerà a sperimentare e vivere le proprie emozioni, a sondarne gli effetti, su sé e altri, ad apprezzarne la profondità e la varietà? Che ne sarà dell’empatia? Il ragazzo tenderà a isolarsi e a sviluppare attenzione soprattutto per se stesso, sollecitando il proprio narcisismo, che si esprimerà nell’attesa di un like o nella produzione di selfie, senza che l’altro possa intervenire a disturbare o esigere la propria parte dell’attenzione.
Ci ripugna immergerci nei più neri spauracchi della dipendenza da Internet, ma il disturbo psicologico di non-controllo o di dis-controllo degli impulsi che arrivano dalla Rete è una possibilità più diffusa di quanto vorremmo. Osserviamo i ragazzi, e domandiamoci quante volte controllano se gli è arrivata posta. Quanto tempo passano in chat? Poniamo attenzione, soprattutto se notiamo qualche segno di malessere. O se il tempo durante il quale sono rimasti on line ci pare davvero lungo: non potremo demandare a loro stessi questa forma di controllo, perché sono destinati via via a essere sempre meno consapevoli della prepotenza del loro bisogno di Internet, e sempre meno capaci di valutare autonomamente i rischi della permanenza e dell’impossibilità di interrompere volontariamente. La dipendenza cyber-sessuale è solo un aspetto (grave) della dipendenza, come quello dai giochi in Rete (Net-gaming) che comprendono molte sfaccettature, fino ai giochi interattivi, al gioco d’azzardo o l’uso di casino virtuali.
Molti insegnanti e pedagogisti osservano oggi nei ragazzi una diminuzione della memoria e si sospetta che l’uso di dispositivi sia in parte corresponsabile del fenomeno della smemoria . Ma a che serve sforzarsi di ricordare quando velocemente si può fare riferimento a Internet e cercare l’info desiderata? Occorre dannarsi per essere enciclopedici quando l’intero scibile umano è a portata di un click? Non mi devo affaticare per tenere a mente un numero di telefono e posso liberare la mia testolina da piccole informazioni inutili … senza accorgermi di vivere ormai in un permanente stato di amnesia, dove nulla appare tanto importante da occupare stabilmente uno spazietto di mente.
Vi è un aspetto della carenza di memoria che viene definito amnesia digitale, che aggiunge motivo di preoccupazione, e che funziona come un serpente che si morde la coda. Quando si cercano in Rete informazioni di genere vario, ci si occupa e preoccupa anche di stabilirne la reperibilità in tempi successivi, assicurandosi di potervi accedere nel futuro. Così, non si è tanto occupati, come si potrebbe immaginare, nel fare una lettura attenta di ciò che si è cercato, ponendo attenzione ai contenuti, anzi, è stato dimostrato che l’attenzione diminuisce con la consapevolezza della disponibilità di reiterare la ricerca, per ottenere l’info.
Tutto questo ha anche un po’ a che fare con la proverbiale taccagneria cognitiva di noi umani (ce ne hanno ampiamente parlato i neuro-cognitivisti): pare che il nostro obiettivo fondamentale dopotutto sia far risparmiare fatica al nostro cervello, vale a dire risparmiarci la fatica di imparare. Pare che le leggi dell’economia valgano, ahimè, anche nell’apprendimento, spingendoci a lesinare sulla nostra partecipazione mentale (siamo tremendamente pigri mentalmente!) e a economizzare le nostre (accidiose) risorse intellettuali.
(giugno 2019)