Solitari o viziati? di Letizia Gariglio
(pubblicato nel mese di ottobre 2019 su “Parole in rete”
Assomiglia all’abuso tecnologico, ma non coincide: l’elemento che li rende così somiglianti è la virtualità che viene scelta in luogo del reale. Ma raramente il tempo trascorso in Rete è la causa, è piuttosto manifestazione di una scelta che il soggetto ha compiuto e compie reiteratamente di ritirarsi dalla società. Eppure i giovani, adolescenti o post-adolescenti che optano per la solitudine paradossalmente sembrano placare i loro disagi nell’interazione virtuale. Perché?
La vita reale ha contribuito a creare una storia difficile: il giovane si è sentito in qualche modo inadeguato, socialmente, fisicamente, o caratterialmente, a affrontare la guerra della vita, e dopo i primi insuccessi verificatisi per davvero, o comunque vissuti come fallimenti, anziché affrontare in modo attivo il proprio senso di sicurezza, senza negarsi alle prove e alle proprie presunti o reali perdite, preferisce rinunciare, ritirarsi dagli stimoli competitivi, negare risposte alle pressioni di famiglia, scuola, o lavoro.
Ecco dunque che alcuni ragazzi cercano rifugio nella propria casa, nella propria stanza, nel proprio spazio raccolto e protettivo al pari di un ventre materno. Da lì si permetteranno di interagire col mondo solo in modo virtuale, senza doversi impegnare necessariamente in un approccio fisico: il mondo fittizio del Web sarà per loro più attraente (e forse più poetico) del mondo reale.
In Giappone il fenomeno di questi ragazzi si è delineato prima che in altri luoghi: è nel paese del Sol Levante che si è arrivati per primi alla definizione di Hikikomori, tendenza sociale (e al contempo definizione delle persone con caratteristiche profondamente solitarie) che comporta in forme più o meno gravi il ritirarsi dal mondo.
Anche gli “anime” si sono occupati della tematica, proponendo storie di protagonisti con tutte le caratteristiche degli stessi Hikikomori. I benpensanti hanno visto nel fenomeno del mercato del fumetto giapponese una sorta di denuncia sociale del fenomeno, ma i maldicenti hanno invece temuto una perversa attenzione per la tematica allo scopo di sfruttarla a fini di mercato. Non sfugge in ogni caso che gli Hikikomori – non solo quelli giapponesi – siano appassionati di manga e di anime. Di più, va detto che oggi questo interesse per diverse forme della cultura giapponese si registra in molti ragazzi Hikikomori, indifferentemente europei o americani; inizialmente attratti da elementi della lingua e della cultura giapponese, hanno in seguito operato, nella loro vita personale, la scelta di diventare Hikikomori, quasi ad identificarsi con i personaggi delle loro sfigatissime storie preferite, confermando così, con esperienze personali, le scelte dei loro eroi falliti, maschili e femminili.
Purtroppo questa sorta di eremitismo del terzo millennio non prevede il raggiungimento di luoghi inaccessibili, né la determinazione di scelte spirituali, non contempla pratiche di ascetismo o di mortificazione del corpo, a meno che non vogliamo considerare una forma di mortificazione la reclusione prolungata in uno spazio chiuso. Ma se l’eremitismo, o l’ascetismo, venivano praticati allo scopo (quantomeno dichiarato!) di raggiungere i più alti fini spirituali, praticando una strada quanto mai difficile, il fenomeno dello hikikomori è invece la risposta a una pulsione all’isolamento sociale, che si traduce in un rifiuto progressivo (quanto cosciente, non si sa), e si manifesta in alcune fasi che si succedono in modo peggiorativo.
Spesso i ragazzi hikikomori partono da una situazione interiore di particolare sensibilità che favorisce l’ingresso in queste forme di depressione esistenziale sempre più diffusa. Le famiglie che vivono con figli hikikomori sanno che i loro figli problematici sono tutti d’accordo su una cosa: il problema non esiste, dunque non vi è nessun bisogno di cambiare le cose, né di ricevere alcuna forma di aiuto. Anzi, ogni offerta di aiuto è vissuta come una perfida occasione di intromissione, dunque come un pericolo.
Qualcuno sostiene che è improprio o esagerato definire hikikomori questi ragazzi, introversi, tendenzialmente asociali, votati alla solitudine. Lasciamo stabilire limiti e confini a psicologi e terapeuti. Certo, agli occhi dei genitori l’impulso all’isolamento dovrebbe essere riconoscibile: eppure non è sempre così. Oggi, poi, sono insorte ulteriori aggravanti del fenomeno. Intanto si sta spostando esponenzialmente dall’adolescenza all’età adulta, e ha iniziato a coinvolgere ragazzi e ragazze sui trent’anni: talvolta non hanno saputo o potuto realizzare un loro percorso lavorativo. Tuttavia in ogni caso, si tratti di maschi o femmine, più giovani o meno giovani, si è sempre costretti a constatare un atteggiamento di eccessiva protezione da parte della famiglia, e soprattutto una relazione eccessivamente stretta e interdipendente fra madre e figlio o figlia, che contribuisce a formare nel più giovane la scelta di non-partecipazione alla “selezione naturale” della vita.
Oggi, fra tutte le esclusioni del political correct, nel cestino delle parole escluse c’è anche quella che un tempo si appioppava a certi figli: viziati! Perché viene permesso a questi ragazzi di gravare con le loro scelte, oltre che sul proprio benessere, su quello delle famiglie e della società?