IN VIRUS VERITAS. LE MALATTIE NELLA LETTERATURA. MA CHE COS’È LA LETTERATURA? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nell’aprile del 2020 su “Parole in rete”)

Quante malattie, fisiche o morali, individuali o collettive, pandemiche o segrete: sempre, nei tempi passati, furono presentate in letteratura come strumento di punizione di un dio incollerito con un singolo uomo, con un’etnia, con una città…Il corpo malato, colpito dalla malattia, doveva corrispondere analogicamente a un’anima malata: alla malattia fisica si accompagnava una malattia morale; così si differenziava, per negatività, colui che, possedendo caratteristiche fisiche “sbagliate” non poteva che presentarne altre, altrettanto sbagliate, di deformità morale. 

Partendo dalla Bibbia per arrivare alla letteratura ottocentesca troviamo sempre la stessa concezione di malattia. Sodoma e Gomorra furono distrutte perché avevano meritato il castigo di Dio (per aver peccato contro la legge di ospitalità – o secondo altri per sodomia); nel Vecchio Testamento si apprende che Maria divenne lebbrosa a casa della collera di Dio (Numeri) perché aveva parlato contro Mosé; che Giobbe ricevette una bella ulcera maligna  dalla pianta dei piedi alla sommità del capo perché Dio voleva essere certo della sua accettazione e della sua integrità, nonostante le tentazioni di Satana. 

I Greci non indietreggiavano nel ritenere Prometeo causa del suo male (il fegato gli veniva costantemente rosicchiato da un’aquila), perché necessariamente punito del suo furto del fuoco per gli uomini; nemmeno gli Achei si stupivano nel primo capitolo dell’Iliade se il dio Apollo inviava loro la peste, tale da colpire muli, cani e uomini in egual misura, perché avevano offeso il dio Apollo rapendo Criseide figlia del sacerdote Crise.

La Natura tarda a farsi sentire come generatrice di malattie: bisogna arrivare fino a Lucrezio, che nel “De Rerum natura” tenta un avvio di interpretazione scientifica dei germi e delle malattie provocate da “semi” di cose “che danno malattie e morti”. 

Dante non ci risparmia tutto il suo ribrezzo nella descrizione, nelle Malebolge, dei falsari, dai quali si sente un puzzo temendo “uscir dalle marcite membra”, e il suo paragone va ad Egina, isola sulla quale Giunone aveva scagliata la peste, e dove “li animali, infine al piccolo vermo /  cascano tutti…”; i falsari si grattano, deturpati, come posseduti dalla scabbia, lacerando e staccando pezzo a pezzo le loro croste (cap, XXIX dell’Inferno). 

La peste torna in Boccaccio: “erte enfiate” crescevano come mele nell’ “anguinaia” o sotto le “ditella” (inguine e ascelle); lui non recalcitra nel dare un nome ai bubboni: “gavòccioli”, e si inoltra fin dal primo capitolo a descrivere il dilagare delle peste nella Firenze del 1330, segnalata da “macchie nere e livide”, sintomi definitivamente premonitori della morte che, puntualmente, avveniva dopo tre giorni Non troppo differentemente da autori precedenti Boccaccio pensa della peste che sia conseguenza di colpe umane: “la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”. È ancora sempre una punizione di Dio, dopotutto.

Anche in Manzoni si presenta una “stortura” a provocare la peste di Milano, causata da cattivo governo, dagli errori prodotti dalle menti di chi doveva guidare la città, altrimenti incapace di dare ordine e razionalità alla vita sociale: per questo un’intera comunità era stata punita in modo eclatante.

La descrizione che ci propone Molière del suo malato immaginario è veramente disgustosa. Come dar torto a Belinda se non sopporta suo marito, perso nel conteggio di clisteri purgativi, di quelli “insinuativi”, quelli emollienti, da alternare a quelli detersivi, ai carminativi, e così via… ma qui, per fortuna, ci è consentito ridere.

Dobbiamo arrivare al Romanticismo perché si facciano strada nuovi tipi di malati: il tisico e quello affetto da malattia nervosa, entrambi i tipi spesso beatificati da morti precoci. È in questo periodo della storia della letteratura che inizia a nobilitarsi la vita di individui, che il senso comune definirebbe altrimenti come “qualunque”. Il “mal sottile” diventa affezione letteraria per eccellenza.

Ne sono affetti gli scrittori al pari dei protagonisti dei loro romanzi. Qualcuno si salva, nella realtà e nella “fiction”, come Goethe, altri illanguidiscono nelle loro febbri. 

Il male  falcia Silvia, la “tenerella” che Leopardi amava;  a lei dedicò parole dolcissime: “Tu prima che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi…”

Non è che la prima di una lunga sequela di vittime, più o meno innocenti. Alla seconda categoria appartiene la signora delle camelie, protagonista dell’omonimo romanzo di Dumas.

Ma anche la protagonista di “La Traviata” di Giuseppe Maria Piave, musicata da Giuseppe Verdi, che morirà di tisi fra le braccia dell’amato.

E la pucciniana Bohème si consuma in scena, nella vicenda più nota del teatro d’opera, grazie al libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.

Tubercolotico fu Guido Gozzano, poeta novecentesco la cui poesia è incisa dalla sofferenza e dalla  rinuncia a una vita piena, a causa della malattia: «Non amo che le rose  / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”

La melancolia, malattia che gli antichi attribuivano all’eccesso di bile nera nel corpo, “madre” della depressione  resterebbe meno comprensibile se non fosse comparsa nelle opere di Keats, di Coleridge, di Baudelaire: strumento per i letterati per elevarsi al di sopra delle  normali cose del mondo, per mezzo della propria intima psicologica sofferenza. Non dimentichiamo che “spleen” significa in inglese  “bile”, organo a cui nella medicina antica era collegata la tendenza al carattere saturnino.

È solo nel Novecento che la malattia  in generale diventa un modo, riservato al singolo individuo, di compiere un percorso di autoformazione, e nello stesso tempo uno status in cui l’animo può stabilire una condizione di partenza, in qualche modo ideale, per riflettere, per affrancarsi dal contingente, liberarsi dal piano puramente materiale, e immergersi in una opportunità di pensiero più profondamente filosofico. 

Già Kafka definiva la sua malattia, la tubercolosi, come una malattia “spirituale”, sebbene  il nome vero della sua malattia non lo nomini mai; forse non vuole dare riconoscimento a quell’elemento estraneo al suo corpo, ma del resto l’estraneità è la condizione permanente di Kafka, rispetto al suo ambiente, a suo padre (come mirabilmente sappiamo dalle “Lettere” a lui inviate), alla sua città, dove lui è relegato nel ghetto di Praga: straniero dentro di sé e fuori. E non è forse una profonda malattia quella che rappresenta “Il castello”? Malattia dell’assurda impermeabile stupidità  degli apparati burocratici. Ne sappiamo qualcosa anche noi.

Ed ecco che anche nel Novecento, malgrado più moderne malattie, la peste, almeno quella letteraria, torna.

È la protagonista di Albert Camus (“La peste”), che ci offre, immaginando il dilagare del morbo in Africa , una  riflessione allegorica sul male e sulle sofferenze della seconda guerra mondiale.

Ennio Flaiano, invece, in “Tempo di uccidere”, ambientato durante la guerra di Etiopia, intreccia una storia intorno alla lebbra, con la quale il protagonista fa un incontro molto particolare, e che rappresenta per lui, nella paura del contagio, la paura di incontrare e conoscere se stesso.

Chissà da quale malattia era afflitto il povero paziente di “Totò diabolicus”, che in un canovaccio teatrale (poi divenuto sketch notissimo), interpretava la parte di un chirurgo crudelissimo, incapace, miope,  e tuttavia dotato di pericolosissimo bisturi: splendida satira sui baroni della medicina, dove solo i gatti se la godono, aspettando le frattaglie fuori dalla porta.

Quanto sia breve il passo dalla malattia alla morte ci era già stato chiarito qualche anno prima da da Tolstoi, nel lungo racconto “La morte di Ivan Ill’ic”, che dà nome anche al personaggio protagonista. Un incidente apparentemente non importante immette il protagonista in un imbuto, un buco nero, a sprofondare fino al fondo, verso cui precipita senza possibilità di ritorno in modo rapidissimo, nella totale indifferenza dei familiari, dei colleghi, degli pseudo-amici, che non provano per lui alcun sentimento. Dunque: malattia e morte come solitudine.

L’incubo della progressiva discesa verso la  morte è anche la cifra di un racconto di Dino Buzzati (“Sette piani”) in cui la discesa progressiva dal settimo fino al piano più basso predispone i malati di un sanatorio all’accettazione della loro stessa morte.

Il protagonista di “La diceria dell’untore” (1981) di Gesualdo Bufalino è una sorta di controfigura dell’autore, che racconta un’esperienza analoga a quella da lui vissuta, di una lunga degenza in sanatorio. Ne scrive l’autore in modo barocco, ricco di sostantivi , aggettivi, metafore. E c’è una ragione che lui stesso svela, perché dentro il sanatorio  «L’occupazione prima degli ospiti della Rocca è infatti parlare, divagare, raccontarsi, inventarsi…»: è la parola, solo la parola, quanto più ricercata e preziosa possibile, in ultima analisi, a salvare dal male.

Questo fa la letteratura.

A che cosa serve, dunque, la letteratura?

Se si provano le emozioni e i sentimenti senza saperli nominare, li si  subisce. Per comprendere le emozioni altrui si deve cominciare a identificare le proprie, bisogna saperle verbalizzare e saperle comunicare; però è vero anche l’esatto contrario: vale a dire che per conoscere se stessi e le proprie emozioni è necessario che siamo educati a riconoscerle negli altri.

Si può partire da sé per divenire empatici, ma ci si può educare all’empatia per arrivare a comprendere meglio le emozioni dentro di sé.

In un mondo che bada solo all’interesse economico e privilegia la conoscenza scientifica perché decisamente più utile agli interessi capitalistici, l’educazione ai sentimenti riceve lo status di cenerentola: il mondo è come quel genitore che ignora (o finge di ignorare) le emozioni dei figli.  Conduce alla alessitimìa, al “non avere parole per dire i sentimenti”.

La letteratura può aiutare il processo che vogliamo realizzare: quello di imparare a riconoscere i sentimenti per divenire  consapevoli di noi stessi, empatici e capaci di costruire legami con altre persone.

La letteratura può facilitare la connessione con il mondo interiore e con i sentimenti altrui; conoscere i sentimenti aiuta pensiero e azione.

Nel momento in cui scrivo ci troviamo in pieno Covid 19, relegati in casa: adulti e soprattutto ragazzi, che vivono la condizione al pari di una ingiusta carcerazione. 

Il mio abituale interesse per i più giovani mi spinge a cercare in Internet ciò che può venire loro in aiuto: video, documentari, file didattici. Ed è proprio così, dovendo constatare lo strapotere della presenza di argomenti scientifici, che sono costretta a domandarmi: che ne è della letteratura?

Dice Mario Vargas Llosa: “Un’umanità senza romanzi, non contaminata di letteratura, somiglierebbe molto a una comunità di balbuzienti e di afasici… Una persona che non legge, o legge poco, o legge soltanto spazzatura, può parlare molto ma dirà sempre poche cose…  non è un limite soltanto verbale; è, allo stesso tempo, un limite intellettuale e dell’orizzonte immaginativo, un’indigenza di pensieri e di conoscenze, perché le idee, i concetti, mediante i quali ci appropriamo della realtà esistente e dei segreti della nostra condizione, non esistono dissociati dalle parole attraverso cui li riconosce e li definisce la coscienza. S’impara a parlare con precisione, con profondità, con rigore e con acutezza, grazie alla buona letteratura, e soltanto grazie a questa”.

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