(articolo pubblicato nel mese di settembre sulla rivista on line Parole in rete)
Si afferma da ogni parte la necessità di muoversi (poco) e di operare “in sicurezza”. Le ragioni scientifiche sono sotto l’occhio di tutti, insistono i nostri politici. Così, se non vediamo è perché non abbiamo guardato bene e dunque meritiamo profondi e diffusi sensi di colpa. Entriamo in un meccanismo grazie al quale il senso di colpa, come si sa, va a inficiare l’autostima, disponendoci a un migliore accoglimento dell’accettazione di regole culturali, date dall’autorità.
È per ragioni di “sicurezza” se oggi i nostri bambini di sei anni si sono affacciati a una scuola che, sommersa in una marea di regole, li coercisce e li ingabbia dentro mascherine e in spazi meticolosamente delimitati, che tassativamente li dividono fra loro, facendo in modo che le bolle personali di ciascuno non possano in alcun modo tangersi e che ognuno, soggiogato da regole impositive scrupolose quanto pedanti, sia chiuso in un metro quadrato che mai ci è apparso tanto piccolo. Mi chiedo quanti fra gli adulti, genitori e docenti, provino qualche moto di ribellione, nel caso siano loro avanzati rimasugli di velleità pedagogiche. È evidente che oggi i principi pedagogici espressi nell’arco di tutto il Novecento sono stati dimenticati, diventando nel giro di qualche mese démodé come abiti smessi: non solo, ma paiono suscitare in alcuni un senso epidermico evidente di fastidio, al pari di malsane ubbie rivoluzionarie Finalmente si torna alla disciplina!, dicono alcune occhiate di soddisfazione, che non è difficile cogliere in giro.
Messa da parte l’attenzione ai valori della scuola come istituzione fondamentale nella società democratica, sembrano essere rimasti in pochi quelli che nella scuola desidererebbero oggi alimentare oggi i valori di libertà, di sperimentazione, l’apprezzamento del “fare”, la ricerca di motivazioni profonde e di interessi, la socializzazione, l’antiautoritarismo, l’espressività.
Ho nominato parole che non contano più, scomparse in un battito di ciglia con l’avanzare delle crisi sanitaria che stiamo vivendo. Parole che la politica della paura ha messo in quarantena definitiva, che temo essere senza ritorno. Trasformati i capi istituto, gli insegnanti e i genitori in psicopoliziotti di memoria orwelliana, vediamo un mondo di adulti che hanno consegnato le loro menti e la loro capacità di pensiero al potere economico e politico che ha deciso di utilizzare pienamente la crisi in proprio favore e ha trasformato in delatori quei pochi che ancora osano avanzare qualche dubbio. Quel che conta è far circolare anche nella scuola le parole appartenenti all’asse che serve a mettere paura: virus, pandemia, sicurezza, infettare, disinfettare, stare lontani, pericolo, contagio, rispetto delle regole, stare seduti al banco, nessun gioco di contatto, no lavoro di gruppo, ubbidire, ubbidire, non muoversi, mascherina, non muoversi, mascherina, mascherina… perché, come diceva Austin nella teoria degli atti linguistici, il linguaggio è senz’altro un modo di agire, con il linguaggio si compiono azioni e dunque si indirizzano comportamenti sia individuali sia collettivi.