(articolo pubblicato nel dicembre 2020 su Parole in rete)
L’Italia, rispetto a altri paesi, ha una storia strana: quando ancora non esisteva una nazione aveva , almeno nella sua idealità, una lingua. La lingua italiana si è configurata come tale in alcuni secoli di storia (pochi secoli), preceduti dall’esistenza di una lingua madre diffusa in tutto il territorio, in cui era confluito il flusso di una cultura e di una civiltà di tipo unitario, quella latina-romana. L’Italia durante l’Impero non costituiva la “periferia dell’Impero” (prendo a prestito un’espressione di Umberto Eco, che la applicò però agli USA), e fu ordinata secondo principi e fatti di unitarietà di istituzioni giuridiche e politiche se non, almeno nei comportamenti, di costumi. Dunque in un tempo in cui l’Italia non esisteva come stato unitario, ma solo come entità geografica, essa guardava in avanti fondando alcune aspirazioni di unitarietà sulla storia passata, che l’aveva vista cuore pulsante del mondo. Aspirava innanzi tutto a una nuova unitarietà di lingua, fondando il proprio anelito su basi letterarie e poetiche. Non era un desiderio alla portata di tutti. L’aveva compreso Dante, che delineava l’Italia come quello spazio geografico, quell’area territoriale su cui si sarebbe diffusa una lingua letteraria, un volgare letterario cui avrebbero portato il loro importante apporto i letterati, in primis quelli toscani.
L’Italia, insomma, fu prima creata, immaginata, perseguita dall’immaginazione appassionata di letterati e poeti e solo poi, molto tempo dopo, realizzata su un piano politico. Che dire se tuttora gli italiani hanno scarso senso della nazione? Non era una nazione, non esistevano che stati e staterelli e etnie differenti nelle quali si riconoscevano i popoli (da intendersi al plurale).
Eppure la dotta volontà di alcuni ha fatto sì che si prefigurassero, si progettassero e si producessero una lingua e una letteratura, in grado poi di prefigurare, progettare e produrre anche una nazione: ancora oggi giovane, di scarsa storia, di durata per ora inconsistente, se paragonata a quella di altri popoli e altre nazioni dell’area europea. La condivisione della lingua tiene impegnati gli italiani da più di 150 anni accompagnandosi allo sforzo di riconoscersi in una identità di patria.
Lo stato francese, quello britannico, quello spagnolo, quello tedesco furono fondati sulle rispettive monarchie, che crearono le condizioni preliminari sia politiche sia amministrative sia economiche affinché si innescasse un senso di identità dei sudditi (pur con infinite tensioni) in quella cosa che chiamiamo patria. La condizione per cui lo stato crea la nazione non è applicabile all’Italia. Tuttavia l’Italia esiste da molti secoli, è esistita, prima di esistere come nazione, come entità culturale e linguistica, in cui sono confluita le varietà delle culture in una sorta di nazione spontanea.
A che punto è oggi questa lingua che fu capace di fungere da principio creatore di questa unità? Per rispondere prendo a prestito le parole di Collodi:
«Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: Viva i balocci! (invece di balocchi): non vogliamo più shole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili».
Oggi le piazze (vere) sono vuote, nessun ragazzo si sognerebbe di filarsi il teatrino dei burattini, il carbone è troppo inquinante anche per le stufe e ora chi scrive sui muri si chiama writer, ma lo fa con bombolette; tuttavia non siamo privi del nostro Paese dei Balocchi, dove le cose funzionano come in quello della Cuccagna 24 ore su 24. I giochi si sono modernizzati:”chi giocava alle noci”, “chi alle piastrelle” oggi si cimenta in forme di gioco on line più raffinato ma altrettanto ipnotico, “chi faceva i salti mortali”, “chi cantava” “chi recitava” “chi mangiava la stoppa accesa” si sono centuplicati insieme a “chi rifaceva il verso della gallina quando ha fatto l’ovo” e a “chi si divertiva a camminare colle mani in testa e con le gambe in aria”.
Sulla piazza virtuale si ripete e si amplifica tutto quanto sperimentò Pinocchio, con qualche piccolo aggiustamento di forma rispetto al Paese letterario.
In modo nello stesso tempo più vario ma non sempre più raffinato la piazza delle Rete offre ogni mercanzia idonea a stupefarci, non solo, offre nel contempo l’opportunità di essere creatori di incanti dedicati a altri. Peccato che le molte forme di creazione sul web, per quanto originali e divertenti, si accompagnino spesso alla trascuratezza della lingua: ciò vale in generale e ancor più in italiano. La lingua italiana che si adopera sul web per comunicare è, secondo molti sociologi, la prima vera lingua italiana usata in forma scritta in modo libero, svincolata dai suoi aspetti più colti, da quella lingua cioè che per circa un secolo dopo la formazione dell’unità d’Italia era rimasta inamidato appannaggio delle classi alte (gli altri nella vita quotidiana continuavano a parlare il dialetto).
La lingua del web – credo che ciascuno possa constatarlo e non ci sia bisogno di ulteriori dimostrazioni – è piuttosto povera, elementare, spesso priva di espressioni connotative, scarsa di livelli espressivi elaborati. Il degrado è esposto all’orecchio e all’occhio di tutti: è reale imbarbarimento. Le costruzioni delle frasi sono approssimative, zoppicanti sia sotto il profilo grammaticale che quello lessicale. Tutti se ne fregano degli errori ortografici, come se fossero inesistenti e non incidenti sulla comprensione di quanto scritto. Il lessico si riduce a una manciata di parole numerabili, cui rispondono altrettanti concetti, oltre i quali nessuno si azzarda. I tempi verbali, che consentirebbero nel nostro patrimonio linguistico costrutti dinamici e varietà sintattiche, sono scarnificati e ridotti ai tempi della realtà, con netta preferenza per il solo presente (solo indicativo, è ovvio: vade retro, congiuntivo!).
Alla povertà semantica si aggiunge uno sproloquio smisurato nella lingua cosiddetta inglese (ma che risponde anch’essa a un inglese rudimentale), funzionante ai minimi termini, ridotta a fungere in modo scarno e rozzo da lingua franca.
Confesso di non avere ancora capito se quest’uso così sconsiderato dell’inglese (o di che per esso) dipenda dalla volontà di chi lo adopera di apparire ben adattato al mondo globalizzato, in linea con i tempi. Sono sicura però dell’effetto di questo comportamento esterofilo e falsamente cosmopolita: mette noi italiani in una posizione del tutto subalterna, in definitiva ci rende dei sottoposti a una nuova forma, passiva, di colonizzazione.
Non è solo l’impasto mal riuscito con l’inglese a preoccupare, è anche la sciatteria che accompagna l’italiano digitato, che non è né scritto né parlato, ma che si serve di registri linguistici bassi, informali, simili a quelli del parlato, evidenziando però nello scritto le trascuratezze.
Abbondano le tachigrafie, gli acronimi (che personalmente detesto perché perdo concentrazione nella lettura nello sforzo di ricordarmi il significato), abbreviazioni di tutti i generi, gli emoticon, gli emoji, pezzi di frasi in dialetto, scrittura senza spazi, cui si aggiungono (finalmente!) Invenzioni di parole nuove, fino ad arrivare a forme di gramelot o comunque di registri di gruppo. Naturalmente in tutto questo abbiamo già dato addio alle maiuscole, o meglio all’uso tradizionale delle maiuscole, che invece servono futuristicamente a ingrandire la forma delle parole in corrispondenza dei concetti più importanti (Marinetti ne sarebbe estasiato).
A dire il vero credo che Tomaso Marinetti oggi sarebbe estasiato anche dell’uso che si fa dei segni matematici (+, – X, ecc.) come propugnava nel Manifesto Tecnico della Letteratura, ma ancor più trarrebbe soddisfazione nel vedere ottenuto il risultato che auspicava, quando affermava: «Io vi ho insegnato a odiare le biblioteche i musei, per preparavi a ODIARE L’INTELLIGENZA». O ancora quando diceva e scriveva: « Bisogna distruggere la sintassi».
Quanto alla punteggiatura in Rete, vincono i punti esclamativi, talvolta in equo accompagnamento agli interrogativi, con cui formano legioni. Pare piacciano tanto i tre puntini (odiatissimi da me), che nel frattempo, forse per farmi dispetto, si sono allungati ad libitum. Non mancano il turpiloquio, le offese, l’aggressività verbale, malgrado il tentativo del politically correct di annacquare tutto.
Come finirà la nostra lingua? Come finiremo noi italiani?
«[ … ]quando una mattina Pinocchio, svegliandosi ebbe come si suol dire una brutta sorpresa che lo mise proprio di malumore.
E questa sorpresa quale fu?[ … ] fu che Pinocchio, svegliandosi si accorse [ … ] che gli orecchi gli erano cresciuti più di un palmo e vide la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini ».