(articolo pubblicato nel febbraio 2021 su Parole in rete)
Gli Stati e le società occidentali degli anni del Novecento, di impronta fordista, si fondavano pressapoco fino agli anni ’70 su un’organizzazione che si manifestava negli aspetti economici come su quelli sociali e politici: il substrato che reggeva l’impianto era costituito dall’industria. Lo Stato era in grado di fornire alcune sicurezze, alcune “protezioni” che si irradiavano dal piano individuale a quello collettivo e viceversa. Era in qualche modo un’organizzazione granitica, che offriva, insieme ai grandiosi difetti del liberismo di epoca industriale anche la certezza di uno Stato per lo più funzionante. Quella certezza formava in qualche modo l’individuo, ne plasmava la psicologia, lo manteneva inserito in un quadro stabilizzante. Inserite in un contesto sociale mutevole in maniera lenta, le persone erano in grado, pur nelle difficoltà, di immaginare un futuro, di porsi delle prospettive, di progettare le proprie esistenze.
Nel giro di pochi anni è iniziata – e si è compiuta – la disgregazione di quel mondo, di quella certezza, e la precarietà è divenuta in generale la caratteristica dominante dei nostri destini, del lavoro, delle relazioni. Oggi è persino difficile trovare un senso al primo articolo della Costituzione Italiana, che recita «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Quale lavoro?
Il sentimento di incertezza pervade la vita di molti di noi: dei giovani, per l’impossibilità di costruire progetti, degli anziani, per i rischi che individuano nell’ambiente e nella salute, di molti, che temono conseguenze di immigrazione e diversità… Siamo in piena liquidità (tranne quella del portafogli, che del resto presto con l’eliminazione del contante non servirà più…), in quella condizione che ci catapulta direttamente nel sentimento oggi dominante: la paura. E, secondo ciò che scriveva Bauman, noi abbiamo paura per il nostro corpo e i nostri beni materiali, per le minacce rivolte alla stabilità nostra e dell’ordinamento sociale in cui ci troviamo inseriti, per il nostro status, la collocazione e il ruolo che ricopriamo all’interno della società.
Impossibilitati ad aggrapparci alla forza della ragione (che meraviglia, l’Illuminismo!) ci sentiamo costantemente incerti nel presente, dunque impossibilitati a proiettare il presente nel futuro, che temiamo più del presente, sovrastati come siamo dalla sensazione che i risultati non dipendano necessariamente dalle nostre azioni, dunque consapevoli di essere fondamentalmente impotenti. Così viviamo in una condizione costante di paura, ed è proprio il ricorso alla paura che i poteri forti attuano per manipolare le coscienze. Tutto il sistema dei media serve ad acuire la paura, amplificandola con le notizie peggiori, ma più spesso inventandole. Così viviamo sottoposti a tecniche di manipolazione, basate su una forma di paura che ci viene propinata quotidianamente, lenta, strisciante, corrosiva, capace di avvelenare lentamente e efficacemente emozioni, pensieri e di indebolire via via sicurezza, capacità critica e volontà.
Quanta diversità ha questo nostro modo di provare paura e quello cui ci ha abituati la Letteratura. Mi limiterò, a titolo esemplificativo, al modo con cui tratta la paura il Padre della nostra lingua. È la paura a occupare i primi versi della Divina Commedia, suscitata dalla selva oscura «selvaggia e aspra e forte»: è l’ignoto a spaventare il Poeta nel «mezzo del cammin» di sua vita, ma alla «selva oscura» Dante sembra affacciarsi all’improvviso, colmando il suo animo di terrore. Ma poco dopo può alzare gli occhi verso il colle e vederne i fianchi illuminati dai raggi del sole, e così può lasciare spazio dentro di sé alla speranza. Subito dopo saranno le fiere a incutergli paura, ma una nuova via di salvezza si profilerà, nella figura di Virgilio. La paura si ripresenterà nel III Canto davanti alle porte dell’Inferno, dove la possibilità della speranza sembrerà cedere di fronte all’iscrizione « Lasciate ogni speranza voi ch’entrate». Che paura educata, quasi burocratica, con quel suo avvertire chiaro e indiscutubile, con il valore di legge: una legge così poco italiana, oserei dire, priva di postille, note, notarelle e commi, come siamo invece abituati a leggere nell’abitualeincomprensibile burocratese. Insomma, se c’è da avere paura, che cosa c’è di meglio se non capirlo da subito con un chiaro avvertimento? Poi ancora la paura si sporge sulle rive dell’Acheronte, suscitata dall’oscurità infernale, dalla violenza acustica dei suoni, dove paesaggio e personaggi formano tutt’uno, e può dilagare mentre Caronte urla e minaccia. Il sentimento si ripresenta ancora ad ogni discesa di cerchi infernali, ma si colorisce in modo acceso nel Canto forse più comico, il XXI, nell’incontro con i Diavoli e il rischio della pece.Dopo averli beffati, però, Dante teme la loro vendetta («…la prima paura si fé doppia”) e si sente «arricciar li peli / dalla paura…»; con Virgilio fugge dalla bolgia, scivolando supino lungo il pendio.
Insomma, è possibile osservare come la paura, nei versi di Dante, sia sempre esplicita, motivata in modo chiaro da una causa percepibile con la partecipazione di tutti i sensi (vista, udito, tatto…) e distinguibile con precisione: è un moto dell’animo suscitato da cause individuabili e ragionevolmente indicabili.
Ma come è oggi la paura? E come ci comportiamo noi, dipendenti mediatici, drogati di informazione? Ci alimentiamo, certo, delle informazioni, che sono volentieri catastrofiche, ma soprattutto del framing, vale a dire della cornice nella quale ci vengono propinate. Facciamo l’esempio del coronavirus? Ci terrorizzano con i contenuti, ma soprattutto con le immagini di. scafandri, morti viventi nella plastica, mascherine, maschere e caschi, mentre sullo schermo, sulla vetrina delle farmacie, spettralmente si legge «disinfettanti e mascherine terminati». Intanto sulle poltrone salottiere si contrappongono litigiosamente scienziati veri e finti , alla moda o démodé, tutti piuttosto terrificanti nelle loro previsioni. Il risultato è sempre lo stesso: «non pensare all’elefante», ed ecco che riusciamo a pensare solo a quello. La pressione aumenta ancora e i comunicati più o meno ufficiali si succedono uno all’altro contraddicendosi e creando grande confusione; l’incertezza ci rende dimentichi di avere pur sempre un cervello e ingurgitiamo benevolmente qualunque scorrettezza. Ce lo fa notare il nostro filosofo più importante, Giorgio Agamben, che semplicemente riportando i dati in modo ordinato ci induce a leggerli, ma a leggerli veramente. E così finalmente chi ha fatto questo sforzo ne constata l’assurdità. Eppure, sulla base di questi dati assurdi intanto abbiamo perduto le libertà costituzionali, abbiamo abdicato alla nostra vita sociale, perché abbiamo permesso che ci sia stata cancellata e…viviamo nella paura, mentre il vero nemico si rende sempre meno riconoscibile, simbolicamente occultato in ambiente a lui simbiotico. A noi viene a mancare un forte movimento d’animo, come quelli che Dante ci ha ben descritti e che spingono alla fuga, oppure alla lotta: annichilito il nostro coraggio, siamo impediti nel ritrovare fiducia nella vita, nel destino, nell’azione. Solo se la paura è percepita come tale conduce ad affrontare con audacia il passo a venire, per cercare salvezza e se necessario ad attaccare.
Noi, invece, rimaniamo inerti. Il costante stato di ansiosa paura in cui ci costringono a vivere è quello servile mostrato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito: è la condizione di chi rinuncia a ergersi per paura e accetta di subordinarsi a un padrone.
Evviva il virality show!