Sono tornata spesso ultimamente a parlare o a scrivere dell’accelerazione del tempo, facendo dell’argomento anche oggetto di una conferenza: è una sensazione condivisa da molti come faticosa, una condizione estranea alla propria volontà, inspiegabile, invadente eppure, nonostante la volontà individuale delle persone, inoppugnabile. Mettiamo pure che per appartenenza generazionale io possa essere catalogata fra i viventi classificabili come antichi, se non fossili, ma basta questo a liquidare lo stato di accelerazione percepito? L’accelerazione pervade il tempo delle nostre vite, che sembra non bastare mai, occupa le nostre giornate che si affollano di impegni, doveri, scadenze, appuntamenti improrogabili, che invano abbiamo tentato di scansare e invece, non sappiamo perché, sono riusciti a occupare le nostre giornate, sottraendoci a forme di riflessione, di meditazione, di pensieri scelti da noi invece che da pensieri che ci hanno scelti nostro malgrado. Perché? Perché anche quando apparentemente potremmo staccarci dal contingente, dall’inutile, dal pratico accade questo? Perché ci risulta così difficile portarci da un piano puramente materiale a uno più spirituale, come vorremmo?
Così, quasi a mo’ di consolazione sono tornata agli amati Veda e alla teoria degli Yuga, età vissute dall’umanità – nella forma che conosciamo – attraverso molte migliaia di anni e che vede realizzarsi nell’epoca attuale l’ultima parte dell’ultimo Yuga (il Kali Yuga) del processo che procede dalla perfezione del principio unitario al massimo grado di degradamento finale (per poi dare luogo a un nuovo inizio di un ciclo cosmico). La dottrina indù ci insegna infatti che la durata di un ciclo dell’umanità sulla terra (cui si dà il nome di manvantara) si divide in quattro età, succedenti non già in condizione evolutiva, ma involutiva, in oscuramento progressivo sempre più grave rispetto alla condizione primordiale. Nella cultura occidentale ne narrava anche Ovidio, in modo del tutto analogo, in termini di età: età dell’Oro, dell’Argento, del Bronzo, e infine la nostra, l’età del Ferro.
Non riporto le datazioni che usufruiscono in parte di alcune differenziazioni (sia nella cultura vedica sia in quella occidentale), cui si sono aggiunte proposte di datazioni eseguite più recentemente (per esempio quelle del maestro di Paramahansa Yogananda, Yury Yuktesvar), però desidero soffermarmi invece su quanto dice René Guènon. La lettura/rilettura di Guénon è in certo senso provvidenziale: è in qualche modo consolatorio rileggere le parole del grande filosofo e ricercatore che già nel ‘900 preconizzava una condizione di rotolamento della velocità della vita, quale noi oggi proviamo giorno dopo giorno.
Secondo l’Autore le quattro ere cosmiche o Yuga non sarebbero di pari durata nel tempo, ma la prima prenderebbe quattro parti del tempo totale, la seconda tre parti del tempo totale, la terza due parti, l’ultima, la quarta, prenderebbe solo una parte (4/ 3/ 2/ 1 = 10). E qui, quanto scrive Guénon mi è d’aiuto per comprendere appieno quella soffocante sensazione di accelerazione di cui parlavo poco fa: «È proprio per questa ragione che attualmente gli avvenimenti si svolgono ad una velocità che non trova riscontro nelle epoche anteriori, velocità che va aumentando senza posa e continuerà ad aumentare fino alla fine del ciclo; si tratta di una specie di progressiva contrazione della durata…».
Dunque, se seguiamo il pensiero dell’autore, è per questa ragione che la velocità degli avvenimenti va aumentando a mano a mano che ci approssimiamo alla fine dello yuga; scrive: «…può essere paragonato all’accelerazione cui sono soggetti i corpi pesanti nel loro movimento di caduta: il cammino dell’umanità attuale assomiglia in realtà al percorso di un corpo in movimento lanciato in una discesa, e che accelera sempre più quanto più si avvicina al basso».
Nel pensiero di Guénon trovo riflesse le mie personali sgradevoli sensazioni, non solo quelle sulla accelerazione del tempo, dell’assurda velocità degli accadimenti (cui si aggiunge peraltro la sensazione esponenziale dell’aumento di entrambe quando si seguano le amplificazioni prodotte dai media), ma anche quella della materialità delle nostre esistenze e il senso di degrado che le forme istituzionali in cui ci troviamo inseriti esprimono, compreso il degrado della politica,
Fin dalla Introduzione a Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi (Adelphi Editore) l’autore afferma che pur rappresentando il mondo moderno una sorta di anomalia, una specie di “mostruosità” (agli occhi dello studioso) in realtà corrisponderebbe esattamente alle condizioni del periodo estremo del Kali Yuga (quello in cui ci troviamo): è il punto più basso, dove prevale l’aspetto quantitativo su quello qualitativo. Nel pensiero di Guénon, infatti, gli aspetti quantitativi e gli aspetti materiali dell’esistenza si rafforzano esprimendo entrambi caratteristiche negative. Dichiara Guénon: «Poiché lo svolgimento discendente della manifestazione si effettua dal polo positivo, o essenziale, dell’esistenza verso uno negativo, o sostanziale, il processo stesso acquisisce un aspetto via via sempre meno qualitativo e sempre più quantitativo: l’ultima fase si caratterizza, appunto, come epoca o regno della quantità. Ne consegue che tutte le cose devono prendere un aspetto sempre meno qualitativo e sempre più quantitativo». Già nella sua opera La crisi del mondo moderno (pubblicata in Italia da Enigma Edizioni nel 2021), avvertiva dell’allontanamento sempre più drastico dal “principio” da cui il mondo ha avuto inizio e da come sia caratterizzato da una progressiva materializzazione.
Una fase di grande successo del processo di materializzazione è stato rappresentato dall’epoca industriale, che ha visto l’apice nel XX secolo: un vero trionfo della quantità sulla qualità, sia nelle fasi e nelle modalità dei procedimenti produttivi, sia nel predominio della presenza di macchine, protagoniste del lavoro, mentre gli uomini sono stati ridotti ad azioni meccaniche, sia nell’aspetto complessivo della produzione di cose assoggetta al principio della quantità (produzione in serie). Abbiamo assistito alla retrocessione dell’importanza dei mestieri, delle arti; a dirla tutta abbiamo visto l’arte relegata ad una condizione sminuita, penalizzata in un ambito chiuso dell’attività umana, fino a diventare una specie di sorella un po’ speciale (non in senso positivo) delle attività utili e pratiche, fino a staccarsi dal mondo cosiddetto “reale”.
Oggi vediamo attuarsi un fenomeno che potrebbe apparire come una sorta di controtendenza al processo di materializzazione. Siamo in piena fase di de-industrializzazione, fortemente collegata con i problemi di perdita di posti di lavoro, con l’allontanamento del mondo produttivo (che si contrae o nel migliore dei casi si delocalizza in altri continenti), si percepisce una specie rottura di specchio in piccoli tasselli, di frazionamento indefinito, una vera e propria disgregazione delle attività umane in ogni campo. In realtà, sempre seguendo il pensiero del nostro autore, quella presente non è che l’ultima fase del processo della materializzazione, quello che avvia alla disgregazione, quello della tendenza a dividere ogni cosa frazionandola: la divisione porta a conflitti di ogni genere (che sfociano anche in guerre armate) fra i popoli come fra gli individui. È ancora Guènon a fornircene le ragioni: «Più ci si sprofonda nella materia, più i fattori di opposizione e di divisione si accentuano e si estendono».
E d’altra parte ciascuno di noi ben conosce la sensazione di instabilità, di provvisorietà riferita ad ogni campo, della frammentarietà: tutto domani potrebbe essere, nessun posto è riservato all’immutabile, al permanente. E siamo sopraffatti dalla sensazione della diffusione dell’ignoranza e dal senso di oscurità che ci accompagna: si tratta di quella tendenza al basso, al materiale, che la dottrina indù definisce tamas. Importanti sono solo gli aspetti materiali, ciò che cade sotto i sensi: beni materiali, forza muscolare, fisicità e prestanza, soddisfacimento di bisogni – artificiali e indotti – ma sempre di cose, di denaro, di oggetti definenti uno status; tutto il resto pare essere inesistente, eppure la rinuncia a ogni forma di spiritualità non sempre rende più felici gli umani costretti a immergersi nello spessore della materia in modo veloce, veloce, sempre più veloce.
La velocità sempre crescente dello svolgimento degli avvenimenti si accompagna ad una «agitazione incessante» (sono ancora parole di Guénon), al bisogno di un mutamento continuo. Afferma: «È la dispersione nel molteplice non più unificato dalla coscienza di un qualche superiore principio».
L’immediato pensiero va alle scienze, dove assistiamo a una successione sempre più rapida di teorie, di ipotesi, che sono destinate a essere superate nel giro di breve tempo, soppiantate da altre, altrettanto fugaci. Secondo Guénon le «scienze profane» partecipano pienamente alla rapida discesa verso il basso, «residui degenerati di antiche scienze tradizionali», che si sforzano di condurre tutta la conoscenza a un piano puramente quantitativo, basandosi esclusivamente su forze materiali. Aggiungerei che allo spirito materialistico si accompagna il tratto dell’individualismo, della “falsa unità” dell’individuo, concepito come completo in se stesso.
Tornando a noi oggi, se osserviamo il mondo attorno a noi, ci accorgiamo di come imperi l’individualismo, che crea separatezza fra gli esseri umani, dimentichi di appartenere alla stessa specie. Divisi gli uni dagli altri gli uomini fanno di se stessi delle (apparenti) unità, simili ad atomi.
Mi pare davvero di percepire attorno a noi un lavoro contro l’umanità, un tentativo di condurre l’umanità, attraverso la molteplicità, a una conseguente uniformità, con la soppressione delle distinzioni qualitative. È il processo di massificazione che molti scambiano per unificazione mentre si tratta di uniformizzazione, in cui si accentua via via sempre di più la separatività fra “unità” frammentarie, vale a dire i singoli rappresentanti dell’umanità: l’uniformità della massa si ottiene infatti sopprimendo ogni distinzione qualitativa. Ecco perché il fine ideale delle élite di potere è quello di realizzare la maggior uniformità possibile – quasi delle unità numeriche, spogliando l’umanità, intesa come specie, delle qualità superiori sue proprie, riducendo i singoli individui a qualcosa di sempre più simile a una macchina.
Potrebbe sembrare una contraddizione quanto osserviamo nella nostra contemporaneità, in opposizione solo apparente con il processo di “materializzazione”, vale a dire la caratteristica della “liquidità”, o della polverizzazione di ogni parametro nella dispersione della molteplicità, dove l’unica cosa permanente è l’incertezza. A tale proposito ci avverte Guénon: «Nella riduzione graduale di tutte le cose alla quantità vi è un punto a partire dal quale tale riduzione non tende più alla “solidificazione”, ma vi sarebbe un punto in cui i corpi non potrebbero più sussistere come tali e si riducono in una specie di “pulviscolo atomico” privo di consistenza… si potrebbe perciò parlare di una vera e propria “polverizzazione del mondo”». E ancora: «La seconda parte (del processo) tenderà alla dissoluzione».
Intanto nelle nostre condizioni di vita, nella tendenza allo sgretolamento, imperano incertezza e impermanenza, e l’effimero trionfa sul duraturo, nell’individualismo spinto al massimo grado il singolo finisce con lo scomparire nella massa, nella poltiglia alimentata dalle politiche di omologazione e atomizzazione sociale, nella moltitudine indifferenziata, dove vi è appiattimento intellettuale verso il basso: un amalgama, un impasto indifferenziato di individui (come vuole l’etimologia della parola massa che significa proprio impasto).
E per creare un impasto gli individui non devono e non possono riconoscersi in una cultura comune, in una nazione, in una religione, in una ideologia… nemmeno in un sesso… e quanto più saranno frammentati in una serie di “generi” tanto più saranno impastabili in una poltiglia, che toglierà loro via via sempre più la possibilità di riconoscersi come umanità.