Transumanesimo e postumanesimo: due parole che da alcuni anni, e con sempre maggiore vigore, girano nelle nostre teste e, ovviamente, nei motori di ricerca che tutti frequentiamo.
Transumanesimo è quel processo all’interno del quale si stanno verificando cambiamenti radicali, tali da incidere profondamente nella forma umana: con la convergenza di tecnologie emergenti, quali la biomedicina, la biotecnologia, le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, le tecnologie dell’informazione e dell’ingegneria sociale, tutte in crescita rapidissima, si avrà come risultato una profonda trasformazione della natura umana.
Il postumanesimo sarà il risultato di questo processo: un risultato positivo e meraviglioso per chi crede che l’uomo saprà liberarsi da malattie, vecchiaia e morte, tremendo per chi ritiene insidioso il passaggio da un’evoluzione biologica a un’evoluzione sempre più artificiale della vita umana.
Gli entusiasti non hanno dubbi né temono conseguenze della propria hybris, del loro peccato di smisurato orgoglio prometeico, altri ritengono quantomeno inopportuno tentare di superare e modificare radicalmente la natura umana, riconoscendo nella natura una saggezza intrinseca.
I primi pensano di poter intervenire sulle capacità cognitive ed emozionali dell’uomo, gli altri ritengono che un’espansione quantitativa (di dati cognitivi trattenuti dalla mente, o di anni di vita, per esempio) non conduca necessariamente a un miglioramento della qualità della vita, né della felicità.
Nella prospettiva dei fautori il passaggio a questo tipo di uomo superiore, cui anelano, si otterrà per mezzo dell’eugenetica (sostantivo che ancora richiama memorie storiche da far tremare le vene), dove non si escludono dalla prospettiva le terapie dei geni e delle cellule; per mezzo delle nanotecnologie, che prevedono l’introduzione nel corpo umano di microchip, utili a potenziare alcune facoltà, fra cui quelle della mente. L’obiettivo ultimo sarà il superamento della morte: e infatti si guarda con molto interesse alla crioconservazione dei corpi morti, nella prospettiva ultima di poterli riportare a nuova vita.
È evidente che queste prospettive sottendano una visione dell’umanità puramente materialistica e meccanicistica, da cui è esclusa qualunque idea di sé superiore, di scintilla divina, in ogni caso di qualcosa al di sopra della pura materia.
Se però noi cerchiamo il lemma “transumano” sul vocabolario possiamo leggere (su Treccani): «Più che umano, che trascende i limiti della condizione umana e assurge al divino». Assurge, dunque a un piano di creazione eterno, a una condizione di non-tempo e di non-spazio, a Dio, all’«inesprimibile visione dell’Uno» , se ci ispiriamo a Plotino.
Nel desiderio di trascendenza che anima l’umanità, impegnata nel mondo fenomenico e tuttavia rivolta a qualcosa di superiore alla pura materia, questo significato di «transumanare» reperibile nel vocabolario ci regala una speranza per il nostro anelito.
Dante scriveva «Trasumanar significar per verba non si poria»: l’anelito a oltrepassare la condizione umana non si può spiegare per mezzo delle parole. E come possiamo riuscirci noi?
Però Dante è riuscito a «trasumanar» e ha sentito di essere tutt’uno con il piano divino, guardando negli occhi la donna amata.
Gli umani contemporanei, i transumanisti, invece, vogliono che noi, sottolineo NOI transumaniamo con l’aiuto di droghe, impianti, eugenetica, chips cerebrali, e così via… e diventiamo – non oso pensare in quali condizioni – immortali.
Balza alla memoria I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift e il racconto del protagonista che giunge a Lugnagg, dove incontra gli struldbruggs, immortali, ed è costretto a scoprire con rammarico che gli immortali non sono felici e, superata l’età dei trent’anni, diventano malinconici e depressi, caratteristiche che vanno peggiorando con il passare degli anni. «Quando arrivano agli ottant’anni… essi non solo avevano tutte le debolezze e le follie degli altri vecchi (i mortali, n.d.a), ma molte di più… Non soltanto erano ostinati, bisbetici, avidi, tetri, vani, ciarlieri, ma pure incapaci di amicizia e morti a tutti gli affetti naturali». Il colmo della sofferenza viene raggiunto quando assistono a un funerale: «Ogni volta che vedono un funerale si lagnano e gemono perché gli altri sono arrivati a un porto di pace a cui essi stessi non possono sperare mai di giungere». Swift ci confessa: «La mia acuta brama di vita senza fine era molto diminuita». Eppure, che tentazione, l’immortalità.
I miti, cari a noi e alla nostra cultura, raccontano di eroi mossi da altalenante desiderio: quello di assurgere all’eternità, caratteristica del divino, e quello di rimanere legati, anima e corpo, alle condizioni di mortalità, caratteristica umana.
Nel poema che narra l’Epopea di Gilgamesh, in antica lingua accadica, il protagonista non ha dubbi e il leggendario re sumerico intraprende il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità. Durante il viaggio di ritorno a Uruk porta con sé una pianta in grado di far ringiovanire, ma la perderà, perché sarà divorata da un serpente. Prima che ciò accada dice al battelliere: «Urshanabi, questa è la pianta dell’irrequietezza; grazie ad essa l’uomo ottiene la vita. Voglio portarla ad Uruk e voglio darla da mangiare agli anziani e sperimentare la pianta. Il suo nome sarà “l’uomo anziano ringiovanirà”» (tav. XI). Non andrà così. Per il suo fallimento Gilgamesh si dispererà ma, tornato a casa, di fronte alle mura della sua città, Uruk, comprenderà qual è il senso della sua vita di mortale: governare con saggezza al servizio del suo popolo.
Odisseo, eroe del Poema omerico, il cui ritorno a Itaca, terra di partenza e di origine, si alterna con altro desiderio nell’arco di dieci anni durante i quali si svolge il viaggio di ritorno, è incerto fra le seduzione esercitata dalla promessa di immortalità e immutabilità e quella della fragile caducità umana.
Odisseo incontra Calipso che (nel Canto V) di lui si innamora, lo tiene con sé per sette anni, legato al desiderio di lei, gli offre un’imperitura felicità: gli offre l’immortalità, oltre alla sua bellezza e al suo amore. Eppure la brama di Ulisse di tornare alla terra dei padri è più forte, e con il beneplacito della Ninfa, a Giove ubbidiente, costruisce la zattera con cui affronterà il mare per tornare alla sua terra.
Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò (“L’isola”) fa dire a Calipso, rivolta a Odisseo, nel tentativo di convincerlo a rimanere: «Devi rompere il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo… Che cosa è stato finora il tuo errare inquieto?» Odisseo non lo sa, ma dice all’antica dea immortale: « …Tu dimentichi qualcosa…Quello che cerco l’ho nel cuore».
Sfuggito con i compagni alle insidie delle droghe rappresentate dai fiori di loto, sfuggito poi ancora all’ira del Ciclope, e infine ai Lestrigoni, giunge all’isola di Circe (Canto X), presso cui rimane per un anno intero, immemore ospite, vezzeggiato e viziato fra gli agi nella reggia della maga, fra cibi abbondanti e vini dolcissimi, dimentico di sé. Per un anno assapora una sorta di paradiso fino a quel momento sconosciuto.
Eppure anche in questo caso la promessa di eterna felicità non basta a trattenere Ulisse, che uscito dalla condizione di smemoratezza di sé, rinuncia alla condizione di un tempo ciclico senza fine e si risveglia.
Si direbbe che in entrambi i casi descritti Odisseo abbia corso il rischio di perdere la propria identità umana, fatta di imperfezione e caducità, ma in entrambi i casi, infine, egli sceglie di tornare alla propria condizione di umano, il cui senso della vita sta nella terra d’origine, dove si trovano ascendenti e discendenti e, ahimè, alberga anche la condizione di mortalità.
Non dimentichiamo l’etimologia di uomo (homo – hominis, in latino) che condivide la propria radice con l’humus, vale a dire la terra fertile, contenente sostanze organiche prodotte dalla decomposizione di esseri animali o vegetali: in senso metaforico noi usiamo la parola humus per indicare il complesso di fattori culturali da cui qualcosa trae origine: anche il pensiero, le idee, gli accadimenti trovano radici nella terra, in questo modo di usare la parola.
Nella parte finale del Poema omerico si riconferma il radicamento di Ulisse alla terra, alla Terra, alla natura umana e mortale: la vicenda lo stabilisce definitivamente quando viene svelato il segreto che lui condivide con Penelope e che permetterà alla sposa di riconoscerlo: il letto nuziale è piantato in terra, così talmente insediato nella terra da essere stato costruito sulle radici profonde di un secolare albero di ulivo.
Ma, tornando all’attualità, qualcuno vuole ora negare la forza degli archetipi su cui l’uomo da sempre fonda la propria esistenza: a loro non importa nulla ditrasumanar; hanno come unico obiettivo il transumanar del genere umano nella negazione di ogni forma primordiale dell’esperienza umana.
Scrive Borges, in un racconto intitolato “Gli immortali”: «La morte rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo, non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto di un sogno».