UN GRILLO FAMOSO.
No, non è quello che pensate voi.
E neppure quest’altro:
«C’era un grillo in un campo di lino / la formicuzza ne chiese un pochettino, / larinciunfalaralillallero larinciunfalaralillellà….»
La nostalgia non ci viene da filastrocche antiche quanto la nostra infanzia, ci viene per un altro grillo famoso e per il suo autore.
È opinione comune che nella storia di Collodi, Pinocchio, il Grillo Parlante rappresenti la voce della coscienza: non ho mai pensato così, ho sempre avuto un’opinione diversa.
A mio parere il grillo rappresenta l’Autorità, dotata (anche) di un bel patrimonio conoscitivo da dispensare a giovani allievi più o meno birboni. Il Grillo Parlante è un personaggio dotato di modi educatissimi e di un linguaggio forbito ed elegante, paragonabile nello stile e nel contenuto del suo operare a certi vecchi insegnanti di cui noi abbiamo memoria, incontrati nelle nostre esistenze. Le cose che il grillo dice sono le stesse che alcuni educatori, presenti in età diverse delle nostre vite, hanno ossessivamente ripetuto, con l’intendimento di convincerci, per mezzo delle parole, ad accettare l’impronta del loro insegnamento, affinché ci adattassimo al sistema.
Chi più, chi meno, tutti abbiamo ricevuto quell’imprinting supportato dal peso condizionante delle parole dei genitori, degli insegnanti, della famiglio, delle istituzioni scolastiche.
Nell’opera di formazione che abbiamo ricevuto, anche attraverso le parole, ci siamo più o meno adattati, a seconda della nostra indole, delle caratteristiche della nostra personalità, in buona sostanza della nostra docilità a sopprimere la nostra originaria individualità.
La scuola oggi non è molto diversa da quella dei tempi di Collodi: quanti concetti più o meno inutili vengono forzatamente immessi nella mente degli allievi, con la ripetizione di un mucchio di parole, spesso inutili, attinte da una pedagogia vecchia e inappropriata per i nostri tempi.
«…Abito in questa stanza da più di cento anni…», afferma il Grillo a Pinocchio; «…Però questa stanza è mia», risponde il burattino: vale a dire l’intelletto è il mio. Il grillo può sapere tutto, ma è Pinocchio che deve comprendere. E il pedante grillo ci rimette la vita, colpito da una martellata, anche se Pinocchio «non credeva neanche di colpirlo». E così, in poche righe del quarto capitolo il grillo viene liquidato; ma la coscienza di Pinocchio, quella sì che dovrà proseguire la sua strada.
Non è però un’eliminazione definitiva dell’erudizione perché l’insetto ricomparirà nel capitolo XIII come fioca luce, ombra del Grillo Parlante, che ci proverà ancora una volta, e ancora senza successo, a istruire il burattino con le parole dettate dall’esperienza e dalla conoscenza e, anche se «L’ora è tarda», «La nottata è scura», «Le strade sono pericolose» Pinocchio deciderà, malgrado tutte le parole ammonitrici, di seguire la sua strada e il suo capriccio, riaffermando in tal modo che le parole giunte dall’esterno nulla possono, pochissimo incidono sulle nostre scelte, a differenze delle parole che giungono dalla nostra coscienza interiore.
Nel XVI capitolo Pinocchio, più morto che vivo, perché già impiccato dagli assassini a un ramo delle quercia grande, viene visitato dai medici, chiamati dalla soccorritrice Fata Turchina. Uno dei tre è il nostro Grillo Parlante. Gli altri due sproloquiano, producendo una melma di parole inutili, del tipo: «Se non fosse morto allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo»(parole del Corvo). Oppure: «Se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero» (parole della Civetta).
Forse Collodi con un salto temporale ha visto tutte le trasmissioni televisive che ci propinavano durate il lockdown, quando ogni pseudo-medico e ogni pseudo-scienziato si sentiva in diritto di sparare panzane sulla salute, sulla vita e sulla morte. Le voci di questi personaggi corrispondono alle voci di chi si erge tronfio nella sua falsa conoscenza. Il grillo, invece, per davvero SA, e svergogna Pinocchio rivelando la sua vera natura: «birba matricolata», «monellaccio», «svogliato», «vagabondo».
E per una volta le parole risvegliano, attraverso l’emozione, il cuore di Pinocchio che, finalmente risvegliato nella sua coscienza, scoppia in lacrime sotto le lenzuola.
I palloni gonfiati, i falsi eruditi non desistono e hanno la faccia tosta di continuare: «Quando il morto piange è segno che è in via di guarigione», e ancora: «Quando il morto piange è segno che gli dispiace morire».
Nella loro scempiaggine queste due star della comunicazione finiscono persino con il dire qualcosa di giusto!
Quanto alla coscienza di Pinocchio, la strada perché il protagonista riesca a svilupparla è piuttosto lunga. La possiede in modo caotico fin da quando gli è stato infuso il soffio di vita, ma duro è il compito di farne un cosmo.