Woke: un’altra parola proveniente dal mondo anglosassone che siamo costretti nostro malgrado a imparare e che si aggiunge, in stretto collegamento con esse, alle espressioni linguistiche di cui Parole in rete si è occupata negli ultimi numeri:political correctness e cancel culture. Che cosa significa woke?
Come spesso accade nella neolingua preconizzata da Orwell (e in piena realizzazione oggi) occorre sapere che le parole hanno spesso esattamente il significato opposto a quello che presentano, e che il significato è stabilito da chi della neolingua decide la diffusione. Perciò, come in Orwell il «Ministero della Pace» serve a organizzare la guerra, quello «dell’Amore» serve a operare la tortura (e così via), così woke, che significherebbe sveglio in lingua afro-americana, pare avere il preciso compito di ottundere le menti.
Woke, o stai sveglio, diceva il movimento Black Lives Matter già nel 2013, e voleva significare «stai attento alle ingiustizie» di cui sei vittima,. Il termine era già emerso attorno al 2010 negli Stati Uniti nei campus universitari americani per designare gli emergenti movimenti militanti e è arrivato in Europa, accompagnando il movimento e l’ideologia woke, nel 2020, dapprima in Francia.
Sii cosciente di essere vittima. E che cosa rende vittime queste persone? Quali categorie di persone?
In buona sostanza: il nemico è sempre bianco, orientato in senso eterosessuale, possibilmente europeo, per forza di cose storicamente colonizzatore: tutto il male, dunque, proviene dall’Occidente; coloro che possiedono le caratteristiche sopraelencate sono colpevoli da sottoporre a processo e a giudizio, da parte dei woke, ed essi sono le vittime. Ma negli USA woke non sono solo gli appartenenti alle minoranze che esigono giustizia, ma molti appartenenti alla classe di privilegiati osteggiata dai woke: molti bianchi, eterosessuali, ricchi, vale a dire molti fra coloro che trarrebbero vantaggio dalla loro posizione nella cultura occidentale.
Per capire il fenomeno nella sua complessità ci viene in aiuto Jean François Braunstein, professore di filosofia contemporanea e autore del saggio La religion woke, edito da Grasset. Già il titolo ci avverte che nell’ideologia woke è insito il pericolo di un atteggiamento quasi religioso, lesivo di libertà: il pensatore esprime intense preoccupazioni sull’ideologia woke, collegata a atteggiamenti fanatici e in molte interviste il filosofo non lesina la sua opinione.
Il vittimismo riguarda principalmente tre categorie di persone. Prima categoria: quelli che si riconoscono nella teoria gender e che, oltrepassando i sessi e la biologia, difendono a spada tratta le possibilità di riconoscersi in una identità di genere fluida, mutevole, cangiante, per cui il corpo non possiede alcun valore in cui identificarsi: il corpo è solo quello percepito «dalla propria coscienza». La fluidità dei generi si oppone alla stabilità: «Le nostre coscienze fabbricano il mondo», è uno slogan dei woke. E ritengono di poter fabbricare anche i loro corpi, non più determinati dalla biologia, bensì da decisioni del singolo individuo. È la teoria riconoscibile in tutte le categorie LGBTQIAPK.
Con queste iniziali si intende una serie di varietà sessuali e di genere, che peraltro vanno esponenzialmente aumentando nel tempo, così che la sigla si è già allungata dalle tre lettere iniziali alle nove attuali: ogni lettera propone un arricchimento dello spettro della sessualità umana. Dunque, con santa pazienza: L sta per Lesbiche; G sta per Gay (uomini attratti da altri uomini); B sta per Bisexual, o persone attratte sia da uomini sia da donne; T sta per Transgender, vale a dire persone che non si riconoscono nel sesso loro attribuito al momento della nascita; I sta per Intersex, persone che possiedono caratteristiche cromosomiche fisiche e ormonali miste e non sono né maschi né femmine, ma un po’ uno e un po’ l’altro; Q sta per Queer o Questioning, cioè persone che si stanno facendo domande, incerte sul proprio orientamento e sulla propria identità di genere; A sta per Asexual, o persone che non sentono attrazione per nessun genere; P sta per Pansexual, o persone che provano attrazione per chiunque, a prescindere dal genere (non solo per maschi o femmine); K sta per Kink, persone che provano piacere nell’esprimere la loro sessualità in modi alternativi e in contro-cultura.
Per ora abbiamo finito ma penso che dovremo aggiornare presto la lista. Mi permetto di citare le parole di Braunstein, in un suo saggio precedente, La philosophie devenue folle: «I nostri dibattiti ricordano parola per parola quelli altrettanto surreali sul sesso degli angeli, che agitavano gli studiosi bizantini, mentre l’islam si stava preparando a porre fine a quella civiltà millenaria».
Il secondo punto forte dell’ideologia woke, sempre secondo Braunstein, è la «teoria critica delle razze». Le persone che vi aderiscono sono convinte che il razzismo sia «sistemico»: necessariamente tutti i bianchi sono razzisti e tutti i neri sono delle vittime.
La terza teoria è quella della «intersezionalità». Il concetto di intersezionalità nasce dalla teoria critica della razza attorno al 1989, introdotto da Kimberlé Crenshaw. Si afferma, in pratica, che chi è discriminato sotto più di un punto di vista vede potenziata, moltiplicata l’ingiustizia che riceve e vede lievitare la propria condizione di vittima, come se si trovasse in punti di intersezione degli input discriminanti. Per esempio essere nero/a e nel contempo transexual moltiplicherebbe la condizione negativa. Oppure essere nera e donna, anche; ma l’apoteosi del vittimismo è rappresentato dall’essere nera, donna e magari anche portatrice di handicap.
L’idea è che sia possibile subire discriminazioni secondo più assi, come un individuo in mezzo ad un incrocio potrebbe essere colpito da vetture provenienti da diversi lati. Siccome questo concetto pare offrire la ricerca di mille sfaccettature, i militanti woke si spingono sempre oltre, sempre oltre, e non mancano di trovare sempre nuovi punti di intersezionalità e nuovi aspetti discriminanti.
Traggo la conclusione che nell’ideologia woke predomina un forte senso di vittimizzazione, tale per cui lo stato di vittima assume quasi un senso sacrale e si configura come una sorta di risorsa sociale. Mi ricorda tanto la condizione di alcuni vecchi conoscenti, carichi come me di anni e malattie, che tuttavia non perdono occasione di sciorinarle, per di di più con un certo orgoglio, entrando in particolari che li allontanano sempre più da una condizione di dignità e li precipitano in un baratro privo di decoro. Lì l’intersezionalità, volendola applicare, si potenzierebbe nell’area delle malattie, moltiplicando il vittimismo del malato, mentre questi giovani woke, di cui tutte le ricerche sociali non mancano di puntualizzare l’appartenenza a classi sociali privilegiate perché ricche, non solo rinnegano i vecchi valori di mascolinità, dignità, orgoglio della cultura occidentale che denigrano, ma sembrano nel complesso sempre più impastoiarsi in un’immagine di fragilità e di debolezza, caratteristiche di cui si ergono rappresentanti al massimo grado.
Sembra che alcuni valori umani siano davvero cancellati: le debolezze, le mancanze, le diversità sono motivo di sbandieramento, le caratteristiche di cui eventualmente avvalersi per un po’ di autostima costituiscono motivo di vergogna.
Inutile dire che rimpiango un po’ Clint Eastwood, la sua maschera di uomo bianco occidentale che sa controllare attraverso i movimenti del volto i moti dell’animo, il quale anziché esternare piagnistei e gnaulii, offre di sé un aspetto improntato a gravità e compostezza, in una parola, dignità. Me ne devo vergognare?
Dice Braunstein: «In Occidente rischiamo un 1984 in cui sarà pericoloso anche dire che l’acqua è bagnata».
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