Nell’aprire il motore di ricerca più noto non impatto su alcune notizie di ieri, già rullate verso il fondo, invecchiate velocemente (e male) e già sostituite da altre, fresche di giornata, pronte per creare un tonfo al cuore dei lettori. Ecco che oggi, a farmi sobbalzare di paura, ci si mette un’informazione per così dire molto casalinga, anzi infrattata in quell’archetipica parte della casa che è il camino.
Ad appesantire il piatto della bilancia del caro-bollette di luce e gas troviamo la notizia del divieto di utilizzo di stufe e camini. Compiuto un breve accertamento sulla veridicità dell’ordinanza in questione, contenente il divieto, vengo in realtà a conoscere una serie di dettagli che, se non sono proprio tranquillizzanti, rendono tuttavia la proibizione di usare stufe e camini più circostanziata e meno grave. Ma ormai la testa si è infuocata e ha preso la spinta verso l’alto imboccando la salita lungo il camino delle associazioni di idee. Il caminus latino già rimanda al significato letterale del suo etimo: il focolare, vale a dire per estensione, la Casa e la Famiglia, cioè il luogo che protegge e unisce nella sensazione, non solo fisica, di calore. È direttamente collegato all’idea del fuoco, a sua volta principale simbolo del calore, della protezione dal freddo, di strumento arcaico di difesa dagli animali feroci.
Nella prospettiva di un inverno carente di materie prime (gas, metano, elettricità) e di conseguenza animato da prospettive povere di calore, la notizia depaupera in profondità le persone della speranza di ottenere protezione dal freddo.Anche quelle che fino a ieri il camino non avevano nemmeno pensato di usarlo, ma oggi si sentono improvvisamente private di un’ulteriore libertà. Funziona come il colpo finale inferto al cuore.
Si aggiunge un aspetto altrettanto pericoloso. Il fuoco è anche alchemicamente simbolo di trasformazione, di cambiamento e di purificazione. Quel fuoco che andrà a mancare nel camino delle nostre case ci mancherà anche come proposta di ascesa a livelli spirituali superiori, attraverso un processo di trasformazione interiore. O, almeno, è proprio questa la sottile minaccia che simbolicamente ci viene lanciata con la nuova proibizione, come se non bastasse tutta la chiara volontà di limitare il nostro mondo esperienziale a pura materialità.
La mente balza ai miti. Due sono le accezioni importanti che i miti ci suggeriscono: quella che afferisce al concetto di fuoco come elemento unificatore, attivante anche in senso sociale e culturale e quello di fuoco come desiderio di conoscenza. E a pensarci bene: esiste davvero una distanza tra questi due concetti?
Come non pensare a Levi-Strauss che infuocava le nostri menti adoloscenziali o poco più con le sue opere in cui attraverso i miti si proponeva una chiave di comprensione delle culture. Il fuoco alimentava la cucina di culture vicine e lontane, rendendoci (un po’ di più) cittadini del mondo, desiderosi di unione e rispettosi delle diversità. Fu proprio questo antropologo a insegnarci che nella cottura del cibo (con l’uso del fuoco) era avvenuto il passaggio, nella storia dell’umanità, da una società naturale a una culturale: «La cucina di una società», affermava, «è il linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura». Sebbene oggi l’antropologia strutturale non sia più così di moda credo che nessuno possa dissentire. Bello è il momento della preparazione del cibo, della sua trasformazione attraverso il fuoco, più belle ancora la scelta del cibo e la sua condivisione. Bellissimi i ricordi infantili del cibo preparato sulla stufa, che nella regione dove ho vissuto – il Piemonte, ha segnato le esperienze familiari di montagna. Del resto, è proprio il cibo uno fra i più importanti elementi nel caratterizzare, luoghi, regioni, territori: è importantissimo nella costruzione della nostra identità. Quell’atto, ben noto ai nostri predecessori, di mangiare insieme vicini a un focolare, prometteva e realizzava momenti conviviali di grande valore, in famiglia o fra amici. E ammetto che è la negazione di tutto questo che nel divieto del focolare mi inquieta così tanto: va a toccare un punto nevralgico di risonanza.
Vi è un mito, quello di Prometeo, direttamente legato al fuoco che mi ha sempre sollecitata non poco per il profondo senso di ingiustizia che arreca. Il mito è raccontato da Platone, nel Protagora, per dimostrare «come l’uomo venne ad aver parte in un destino divino per via della parentela col dio», ma come poi gli venissero a mancare «rispetto e giustizia»: doni che per ordine di Hermes vennero distribuiti agli umani successivamente per evitare la loro estinzione, inevitabile se non avessero posseduto «l’arte politica». Dunque Platone innanzi tutto ci racconta che l’uomo fu «foggiato all’interno della terra, con fuoco e terra», come altre stirpi mortali (di animali). Zeus diede poi a Prometeo (il cui nome significa il Previdente) e a suo fratello Epimeteo (l’Imprevidente) l’incarico di distribuire le caratteristiche delle razze. Epimeteo si propone per fare tutto il lavoro da solo, poi Prometeo controllerà. Ma Epimeteo svolge la sua funzione in accordo con il destino che il suo nome gli attribuisce, e fa pasticci. Ad alcune razze assegna forza senza velocità, ad altre velocità ma debolezza, ai più piccoli dona la facoltà di fuggire con le ali, ad altri la capacità di rifugiarsi sotto terra, ad alcuni dà grandezza smisurata oppure distribuisce peli folti e pelli spesse, o zoccoli… e così via. Distribuisce di qua e di là, ma con poco criterio, in maniera malaccorta, finché si accorge di aver terminato i doni: l’uomo è rimasto «nudo, scalzo, scoperto e inerme». Che fare? Passa la patata bollente a Prometeo, che dovrà rimediare ai suoi guai. È così che Prometeo prende da Efesto e Atena la scienza tecnica, anzi, Platone dice che la ruba dall’officina che le due divinità avevano in comune, e le dona all’uomo. Efesto, si sa, è il dio del fuoco, il dio fabbro, Atena è la dea della scienza tecnica. E, conclude Platone, in seguito Prometeo venne punito per quel furto. Quel furto è il furto del fuoco della conoscenza: un furto compiuto per impulso; e analogo sarà negli uomini l’impulso a conoscere, più forte di regole, di precetti, di doveri.
È Gaston Bachelard che propone ( nell’opera Psicoanalisi del fuoco) di annoverare sotto la definizione di «impulso di Prometeo» l’atto del furto del fuoco agli dei, perché la volontà di conoscenza è un impulso fortissimo, più forte di qualunque rischio di fallimento o di punizione – persino quella divina, proprio come sottolinea un altro mito a noi noto, nel raccontare la storia della punizione del genere umano, cibatosi dell’albero della Conoscenza e per questo allontanato dall’Eden. Anche Ulisse, l’uomo che rappresenta più d’ogni altro la volontà di conoscere, è posto da Dante nell’Inferno, proprio per il suo ardore conoscitivo, che lo indusse ad allontanarsi dal pensiero di Dio.
Anche il poeta greco Esiodo nella Teogonia riferisce di Prometeo che Zeus ammonisce: «Non mi sfuggì la tua arte ingannevole». L’inganno organizzato dal Titano , avvenuta in precedenza, aveva visto Prometeo dividere in parti un bue, occultare in un sacco ossi e grasso, nell’altro carne e l’aveva visto indurre Zeus a scegliere il primo: in seguito a questo episodio Zeus toglierà agli umani il fuoco.
Nell’opera Le opere e i giorni il Poeta ritorna sul tema e si sofferma sulla punizione data da Zeus agli umani per il furto del fuoco messo in atto da Prometeo: la formazione e l’invio dello «splendido malanno»: Pandora.
Il mito fu poi cavalcato in ogni epoca e letteratura, stimolando filosofi, poeti e letterati.
Tre secoli dopo Eschilo comporrà il Prometeo incatenato: è ormai l’eroe martirizzato ingiustamente, iniziatore della cultura e della civiltà, delle arti e della tecnica. Boccaccio nel XIV secolo ne farà il simbolo della sapienza e della conoscenza, nella Genealogia deorum gentilium.
Giordano Bruno, XVI secolo, sarà sollecitato dal mito di Prometeo «capace di suffurar il fuoco di Giove per accendere il lume della potenza razionale», secondo quanto dice Saulino nel I Dialogo del Cabala del cavallo pegaseo.
Anche Leopardi nelle Operette morali sceglie Prometeo come co-protagonista di una storia: insieme a un’altra divinità, Momo, che in realtà rappresenta il punto di vista del Poeta, visita tre punti della Terra distanti fra loro per constatare la perfezione umana (secondo Prometeo) o l’imperfezione (secondo Momo). Nell’America del Sud troveranno cannibali intenti a mangiare carne di loro parenti; in India incontreranno una donna (una sati) costretta ad autoimmolarsi perché vedova; a Londra troveranno un uomo che ha assassinato i propri figli e poi si è suicidato sparandosi. A ben osservare (ma Leopardi non sottolinea) tutti e tre i misfatti vengono commessi attraverso quell’elemento – il fuoco – che Prometeo nel mito aveva donato ali uomini: il fuoco cuoce nella pentola carne umana, il fuoco della pira attende la donna, il fuoco dell’arma toglie le vite dei londinesi: è dunque il mezzo attraverso cui l’imperfezione si manifesta.
È Mary Shelley, diciannovenne quando scrisse Frankenstein, il cui sottotitolo è Il moderno Prometeoche ci ammonisce contro i pericoli della conoscenza e della tecnologia, di cui in epoca ottocentesca lei avvertiva chiaramente le opportunità di sviluppo e i pericoli a essa connessi di travalicare i principi naturali della vita umana: lettura più che mai interessante da fare oggi in cui i confini del transumanesimo sono già stati abbondantemente superati.
Tuttavia è l’aquila di Alberto Bevilacqua (Prometeo e l’aquila. Dialogo sul dono del fuoco e i suoi dilemmi, testo del ‘900) che ci fornisce la visione che meglio ci mette in guardia. L’aquila giunge sulla rupe di Prometeo (non è la stessa che ha pasteggiato con il suo fegato) e fra i due intercorre un dialogo, che dura dall’alba fino alla notte in cui entrambi i protagonisti dibattono i grandi temi riguardanti la condizione umana dopo la conquista del fuoco da parte dell’umanità. L’aquila fa a pezzi l’illusione del progresso umano e svela la profonda ambivalenza delle conquiste della nostra civiltà, smontando la metafora del potere dell’uomo sulla natura. Bevilacqua aveva a cuore le problematiche scaturite dai cambiamenti tecnologici, agiti dall’uomo sulla natura, spesso contro la natura. La sua visione di scrittore e di intellettuale evidenzia (peraltro anche in altri suoi libri) la drammaticità del liberismo economico, capace di assoggettare in modo spietato territori e uomini, e di porre la natura al servizio della gestione del potere economico. In questa ottica il dono di Prometeo all’uomo è un dono infido e porta con sé il germe della morte, perché «L’ avidità degli Umani ha consegnato il valore di tutte le Creature-che-stanno-sotto-il-Sole alle monete… all’Ordine-delle-Cose-morte».
E se l’Ordine delle cose morte decide che non possiamo più scaldarci o incontrarci attorno a un focolare (la seconda è già successa durante il Covid), noi che faremo? Saremo ubbidienti servitori della regola, o come novelli prometei (nella migliore accezione) ci ergeremo in ribellione?