TUTTI PIZZICATI DALLA TARANTA

TUTTI PIZZICATI DALLA TARANTA

 (articolo pubblicato su Oltre, n. 35)

Tutti pizzicati dalla taranta

Intervista ad Aurora Lo Bue, ballerina di pizzica

 

Tutti pizzicati dalla taranta

Aperitivi pizzicati, feste e notti di pizzica in piazza, corsi di pizzica, lezioni di taranta.

No, non in Puglia. Proprio qui, da noi, in Piemonte.

Molti erano pronti a giurare che le vecchie forme folkloriche dell’Italia meridionale fossero destinate a morire per sempre, dopo gli anni di grande emigrazione dal sud al nord (anni ’60), con l’accettazione di modelli culturali più “moderni”: i santuari sarebbero decaduti per sempre, vuoti di pellegrini; le feste, religiose e pagane, sarebbero state liquidate in nome del progresso, così intollerante verso le espressioni arcaiche, e i riti della cultura urbana avrebbero prevalso su quelli contadini. Gli uomini, dopo aver finalmente stemperato i bisogni di dare sfogo alle proprie angosce attraverso occasioni rituali, avrebbero scelto la strada del pensiero logico e sarebbero stati così liberati dalle piaghe dell’insicurezza collettiva.

Però non è andata proprio così.

Le feste folkloriche meridionali hanno resistito, i rituali religiosi pure, le forme culturali e della civiltà industriale non li hanno sepolti e un certo grado di liberazione dalle pene e dal disagio non è stato ottenuto solo attraverso il rito urbano settimanale della partita di pallone.

Il latente razzismo di noi a nord dell’Italia verso alcuni modelli culturali del sud, che pure continua a esistere, non ha evitato negli ultimi anni una vera e propria disfatta del nostro gusto settentrionale a favore della più oscurantista tradizione etnografica del nostro sud e del “sud” di altre culture.

Tutto questo è successo passando, in un certo senso, “dalla finestra”.

E la “finestra” fu la danza.

È per la danza che hanno perso la testa i piemontesi e tutti i settentrionali: per la danza più meridionale e antropologicamente densa di significati della nostra Puglia, la pizzica, o taranta, come si usa oggi chiamarla; per la più meridionale delle danze praticate nella regione iberica, carica di storia altra che, giunta fino ai margini dell’Andalucia e alle porte delle Colonne d’Ercole, discende da terre lontane, il flamenco; e per quella danza del sud del mondo e delle Americhe, struggente e insinuante, maschilista e squisitamente scorretta politicamente, che è il tango.

Oggi ci dedichiamo alla taranta.

Deve il suo nome all’aracnide, a quel ragno nero, peloso e maculato, con un phisyque du role a dir poco bestiale, da primattore: la taranta o tarantola, appunto, che così spesso si nascondeva nelle pieghe dei terreni arsi, o fra le spighe che le spigolatrici maneggiavano, pronto a sconvolgere con il suo morso la vita delle persone.

E non tanto perché fosse davvero velenoso – in sé pare essere innocuo, anche se io stento a farne la prova – ma perché il suo morso era simbolicamente velenoso, poiché portatore di turbamenti del corpo e dell’anima.

Il tarantismo si perde in Puglia, risalendo la linea del tempo a ritroso, spesso giungendo fino al Medioevo e anche prima; originato dalla contaminazione di riti orgiastici e iniziatici pagani della Grecia antica, da tempo ha posto intriganti domande agli antropologi.

In che cosa consisteva dunque il tarantismo? In una crisi per cui il soggetto morsicato dalla taranta era dominato da una serie di malesseri e si sentiva costretto compulsivamente a muoversi, a danzare sul ritmo ossessivo scandito dai tamburelli e di altri strumenti. La tradizione popolare riteneva che solo la musica potesse lenire e poi guarire lo stato del tarantato.

Ma già usare l’espressione “tarantato” al maschile è assai improprio, perché il ragno sembrava avere una netta predilezione per le donne.

L’esecuzione musicale e l’intera cornice all’interno della quale si svolgevano le crisi e dove avveniva l’esecuzione musicale in realtà costituivano il quadro di un rituale magico-religioso.

Il fenomeno fu studiato sul campo dall’antropologo e storico delle religioni Ernesto de Martino, il quale giunse alla conclusione che il tarantismo funzionava come un dispositivo simbolico “mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come simbolo nevrotico, veniva evocato e configurato sul piano mitico-rituale”. Era, dunque una fase rituale vissuta dall’individuo, accettata e condivisa dall’ambiente sociale, che permetteva alle sollecitazioni dell’inconscio di trovare una via di sfogo. Al pari di altri rituali aveva dunque in qualche modo funzione catartica.

Nel caso del tarantismo il rito coincideva con la guarigione, vale a dire: il rito era terapia. La danza era, sì, l’espressione visibile di un disturbo, di un “problema”, ma era, allo stesso tempo, l’occasione della sua risoluzione.

Le tarantate al suono della taranta (o pizzica) vivevano la mimesi: si facevano ragno, si identificavano con esso e del ragno compivano i movimenti; poi inscenavano una sorta di morte rituale, liberandosi del ragno, opponendovisi con movimenti di conflitto, e attraverso la danza (forse) rinascevano. Almeno per un po’, almeno per un anno. Infatti il fenomeno aveva una dimensione stagionale, cadeva sempre nell’estate e si rinnovava di anno in anno, così che la tarantata avrebbe risvegliato la sua “malattia” nell’altalena della vita vegetale, secondo il ritmo della natura.

Oggi è possibile trovare sul web un piccolo gioiello della storia del cinema italiano documentaristico, e vedere un documentario prezioso registrato da Diego Carpitello nel 1964. S’intitola propria “La Taranta”; si avvale della fotografia di Ugo Piccone e, incredibile e dirsi, del commento di Salvatore Quasimodo, per la regia di Gian Franco Mingozzi. Per chi desideri una suggestione d’autore ne consiglio la visione.

Ciò che oggi stupisce (o non stupisce) tutti noi è l’immensa fortuna della taranta, o pizzica. Non più danza regionale, destinata all’oscurità della dimenticanza riservata alle cose fuori del tempo, ma danza ri-nata. La Puglia, terra del ri-morso, del morso che si perpetuava stagionalmente negli anni allo scoppiare del caldo dell’estate, ha condotto la sua tarantola fuori dai confini regionali. Ci ha pizzicati tutti. Folle enormi, soprattutto di giovani, si lasciano pizzicare per intere notti, al suono dei tamburelli, dei violini e delle fisarmoniche. Così sono state le notti estive dei giovani torinesi. Così è avvenuto un po’ dovunque.

Torino, città che ha fama di apprezzare e di aver sperimentato nel tempo molte diverse forme di magia, oggi sembra volentieri accogliere la magia di questa musica che può condurre alla trance.

Augusta Taurinorum, città dalla pianta romana, squadrata e razionale, oggi si fa anche un po’ salentina e non disdegna il ritorno di Dioniso e con l’ebbrezza dei sensi e delle emozioni che il dio distribuisce a piene mani attraverso la sua danza.

Intervista ad Aurora Lo Bue, ballerina di pizzica

Aurora Lo Bue, giovane torinese con origini meridionali siciliane è, come tutti i giovani di oggi, figlia di una cultura globalizzata. Eppure…
Ha da sempre interessi teatrali e antropologici; per motivi di studio è vissuta per qualche tempo in Cile, fra gli indigeni della minoranza etnica amerinda dei Mapuche. E lì, confrontando alcuni passaggi di riti di cura indigeni con quelli del teatro, che ama, si è convinta della continuità tra la dimensione rituale e quella performativa, che di fatto si compenetrano, e dell’importanza dei simbolismi rituali, come depositari di memorie sociali e come elementi di trasformazione.
Attratta anche dalla cultura meridionale del nostro paese, è venuta in contatto con lo studio del tarantismo. Il passo verso la danza, poi, è stato compiuto di getto. Ora è una ballerina di taranta, o pizzica.

Giornalista: Aurora, che cosa hai a che fare tu con il “veleno” della taranta? Non mi sembra che tu abbia molto da spartire con le donne che nel Salento, almeno fino agli anni ’50, erano ‘tarantolate’. Quelli erano tempi e luoghi molto duri, soprattutto per le donne, chiuse in un mondo di doveri e di lavoro. Il corpo femminile serviva solo per lavorare e svolgere il ruolo di madri: altro che balli! Non c’erano grandi cure per l’infelicità e per il disagio: non psicologia, non terapie, nemmeno tutte le esperienze di avvicinamento alla dimensione “spirituale”che oggi la nostra società ci offre. Allora il tarantismo poteva offrire una valvola di sfogo, un modo per dar voce alla crisi e ai malesseri, curarli e integrarli, all’interno di uno spazio legittimo, quello del rito; ma tu, perché sei stata attratta proprio da questa danza, forse un po’ ossessiva? C’è comunque il bisogno di espellere, magari simbolicamente, il veleno psicologico accumulato?

Aurora Lo Bue:
E’ vero, io ho poco in comune con le tarantolate del Salento, così come ho poco a che fare con le società rurali del Mezzogiorno. Eppure… eppure le danze del sud sembrano aver molto da dirmi, da insegnarmi, da curarmi. Sono legata in modo speciale alla pizzica perché è stata la prima delle danze del sud sulla quale ho cominciato a muovermi. Si è trattato sin da subito di qualcosa di più che un semplice piacere estetico: ne ho sentito le vibrazioni “nella pancia”. Da semplice hobby, il ballo è diventato presto un bisogno.
La pizzica di certo col tarantismo ha un legame indiscusso. La cura, la guarigione, l’espiazione, la catarsi generata dai ritmi fortemente ripetitivi di quella musica possiedono un’efficacia che sembra oltrepassare i confini temporali. La modernità ha le sue specifiche malattie, più o meno letali, più o meno evidenti, striscianti e camaleontiche: inquietudine, ansia, stress. Attraverso la musica e la danza si può, a mio avviso, reintegrare quella “crisi della presenza” di cui parlava de Martino sessant’anni fa: nel caos-mondo in cui si vive oggi si ha ancora più bisogno di ritrovare o ricreare delle situazioni rituali, spazi protetti cioè dove l’extra-ordinario è consentito, dove ci si abbandona, si vive un momento di puro ludus. E poi, perché credere che oggi ci sia più individualismo e meno comunità? Ciò che ho notato in questi ultimi tempi di frequentazione del mondo del folk, è proprio la sensazione di familiarità, comunione, comunità, appunto.

Vuoi raccontarci le sensazioni speciali che ti offre l’esecuzione della danza? Dirci che tipo di comunicazione si instaura fra ballerini?

Una sensazione molto bella e frequente che provo quando ballo, è il sentire, nello spazio pur ridotto dell’interazione della danza, le distanze che si accorciano, l’intesa che si crea senza i preliminari convenzionali di costruzione di una relazione. Sento che la comunicazione mediata quasi esclusivamente dal corpo e dai suoi linguaggi, più che dalla razionalità della comunicazione verbale, è mille volte più intensa, più autentica.
La coreografia nelle danze del Meridione è quasi assente. L’improvvisazione è fondamentale. Il repertorio di passi e figure è limitato. Eppure ognuno, con questi pochi mezzi a disposizione, può rendere personalizzata la danza. Spesso mi accade di notare le corrispondenze anche caratteriali e di personalità di chi conosco riportate nel modo di muovere i passi: è come se ballando un po’ ci spogliassimo, ci mostrassimo nella nostra intimità, grazie al contatto con quella dimensione corporea, troppo spesso trascurata e messa in secondo piano. Nella mia esperienza personale, l’esercizio del corpo, con il corpo, ha un’importanza cruciale. E’ un terreno di prova, forte, un’esigenza da coltivare… un veleno, forse, da buttare fuori, da “sudare”, o semplicemente da trasformare in un fluido benefico di energia.

In una conversazione precedente sono stata colpita dal modo con cui tu mi parlavi della pizzica, delle sue movenze, dei gesti coreutici e coregrafici e del fatto che tu, nel venire a contatto con questi dati conoscitivi, attuassi una specie di riconoscimento: una sorta di déjà-vu. Insomma, il ragno è animale sacro alla Dea Madre, tesseva il destino degli uomini: c’è stato un incontro destinico fra voi? Che cosa ha tessuto il ragno per te?

Il ragno ha tessuto per me una rete di fili che per quanto disordinatamente possano essere disposti, sembrano trovare un’origine comune… o forse è meglio dire uno scopo comune. Télos in greco vuol dire fine, scopo. Che anche tela significhi quel tendere verso un destino comune a tutti i fili…? Quando avevo meno di diciotto anni iniziai a studiare teatro e recitazione; quando, qualche anno dopo, frequentai un laboratorio di avvicinamento alla pizzica con un teatrante leccese, riconobbi il felice connubio fra la dimensione teatrale e performativa e questa danza, a me così nuova e così stranamente familiare. Poi in Cile ebbi coscienza che la sciamana che guarisce gli individui, compie gli atti di guarigione di maggiore importanza durante una fase di trance: la raggiunge attraverso il suono ritmico e ossessivo del tamburo percosso anche per giorni e giorni. Salute, malattia, trance, catarsi… ritornano.
Ora faccio parte della Paranza del Geco e entrando nel corpo di ballo della compagnia, ho avuto l’opportunità di mettere insieme i due elementi che tanto mi stanno a cuore: la performance, intesa come rituale esecutivo che trasforma sia chi agisce sia chi fruisce, e quell’universo di tradizioni di un sud che in parte, per le origini della mia famiglia, mi porto dentro.
Sì, il ragno sembra essersi dato da fare nel tessere una tela complessa…se poi penso alle facoltà curative attribuite al padre di mio padre (si dice che il nonno avesse poteri taumaturgici riconosciuti, che fosse in grado di togliere malocchi e risanare da disturbi vari, attraverso qualcosa che, dai racconti, sembra somigliare alla trance), i retaggi che mi porto dentro sono reali, i télos sembravo evidenti…

Ci stiamo rendendo conto che Torino è morsa dalla taranta: è tutto un ballare in gruppo la pizzica, suonare, suonare e ballare, senza sosta… Come ti spieghi questo nuovo gusto per questo ballo in gruppo che ricorda tanto le sfrenate danze delle Menadi, sacerdotesse di Doniso? C’è così tanto bisogno di intensificare l’attività e l’eccitazione emotiva? Secondo te, perché tanto successo?

E’ vero, anche Torino è stata morsa dalla taranta. Nel settentrione, sembra sempre più diffuso l’interesse per queste tradizioni che vengono da quel meridione un tempo disprezzato, da quella periferia nazionale che solo di recente sta riemergendo come possibile fonte di arricchimento culturale. Credo che in una certa misura queste danze e musiche offrano un “senso” altro rispetto alla tendenza: nella società dove trionfa la forma, sembra farsi spazio, in questi ambienti, una ricerca di autenticità, una volontà di creare aggregazione sociale, anche in contrasto all’individualismo crescente. Insomma, queste musiche e danze offrono uno spazio di integrazione, la possibilità di coltivare rapporti tanto semplici quanto profondi.

È probabile che il gusto per il ballo della pizzica sia in parte semplicemente un fatto appartenente alla moda, sebbene sia innegabile che questa danza possegga una bella fetta di fascinazione, dovuta al suo contenuto magico coreutico, e che abbia radici profonde nella tradizione. Non temi che diventi semplice fatto di consumo?

Soltanto di recente le tradizioni musicali e coreutiche del sud sono tornate alla ribalta. Si tratta di una moda, in molti casi. E c’è chi, con estrema scaltrezza, ha capito che su questo fenomeno si poteva costruire una qualche forma di business… La Notte della Taranta, ad esempio, è un evento di notevoli proporzioni che culmina in un grande concerto finale verso la fine di agosto a Melpignano, e attira migliaia di turisti: si tratta di un tipico esempio di commercializzazione della tradizione.
Tuttavia non mi sento di condannare l’attività economica che ruota attorno alle tradizioni salentine e del sud, in primo luogo perché spesso questa accresce e diffonde una conoscenza altrimenti perduta, e in secondo luogo perché sono profondamente contraria all’idea di “tradizione” come qualcosa di fisso, immutabile e impolverato. La tradizione (musicale, orale, popolare) non è un pezzo da museo. Le tradizioni si inventano e reinventano continuamente. La creatività con cui vari elementi culturali si possono combinare tra loro è impressionante e può drenare nuova linfa a queste tradizioni, che evidentemente hanno molto da dirci, ed esercitano indubbiamente un magnetismo su di noi per la capacità di creare sostegno relazionale, catarsi psicologica, benessere fisico.

 

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TORINO ED ARCHITETTURA ESOTERICA

TORINO ED ARCHITETTURA ESOTERICA:

(servizio pubblicato su Oltre, n. 34)

Strane facce di pietra

La difesa ai mascheroni e ai batacchi

Draghi e serpenti, energia vitale e rigenerazione

 

Strane facce di pietra

In un numero precedente della nostra rivista abbiamo iniziato, con La Chiesa della Gran Madre, un percorso nella Torino esoterica.
Continuiamo qui disponendoci ad una passeggiata fra i numerosissimi palazzi torinesi che mostrano, sulle loro stesse facciate, e qualche volta nell’interno dei loro splendidi cortili, strane facce, che sembrano guardarci dalle loro posizioni di osservazione privilegiata, dall’alto, sulle chiavi di volta. Scolpiti nella pietra o realizzati in litocemento, ecco i mascheroni torinesi, posti a vigilare sugli abitanti degli edifici contro ogni avversità. Qualche volta ci osservano, celati anche nelle forme dei batacchi, o battocchi, o picchiotti. Stanno lì a consentire a chiunque di bussare alla porta, ma minacciano di saper scegliere coloro ai quali sarà permesso d’entrare.
Allontanare il male: preoccupazione presente nell’architettura antica come in quella greca e romana, dove con significato propiziatorio Satiri e Gorgoni ornavano le antefisse dei templi. Preoccupazione giunta attraverso i secoli fino a noi, in ornamenti di chiavi di volta, nelle cornici e nelle mensole sporgenti sulle facciate, nei mascheroni dalle fattezze umane o animali, e qualche volta persino vegetali. Talvolta questi segni in pietra, in terracotta o in calcestruzzo, possiedono caratteristiche grottesche, rappresentano diavolacci, streghe, uccelli notturni, draghi pericolosi e rettili infidi. Sono posti a scopo protettivo, apotropaico, essendo in grado di esorcizzare il male, allo stesso modo con cui lo sanno fare le fattezze deformi o grottesche, tratte dall’immaginario demoniaco, che si attribuivano ai volti mostruosi.
Già Bernardo di Chiaravalle si domandava, nel XII secolo, che cosa ci facessero nei chiostri, le “ridicole mostruosità”: scimmie immonde, feroci leoni, centauri mostruosi. Si preoccupava che in quei luoghi di preghiera e di studio, si potesse ottenere maggior gusto a “leggere i marmi” che a studiare i codici miniati e a meditare sulla legge di Dio.
Non doveva avere tutti i torti, dal suo punto di vista di “bacchettone” rigorista, eppure i mostri erano da tempo entrati a far parte dei luoghi di meditazione. Poi, nei secoli successivi, entrarono anche a far parte delle pagine miniate, in margine agli scritti, insieme alle note segnate dai monaci sugli spazi lasciati liberi (marginalia). Si cercò di mettere almeno un po’ di ordine fra queste mostruose figure di Dio, inventando i bestiari moralizzati, nei quali si cercò, fra mille sproloqui, di dare un senso allegorico anche alle figure mostruose.
Oggi qualcuno, guardando queste forme dalle strane fattezze sulle facciate dei palazzi, non se lo ricorda più a che cosa in origine servissero.
Per chi poi, come i cittadini di Torino, è abituato a essere circondato, in palazzi storici del centro e di molti quartieri, da ornamenti architettonici di questo tipo, può intervenire l’assopimento della percezione: non ci si stupisce neanche più. Ed è un vero peccato, poiché è davvero un grande regalo poter vivere e camminare fra le strade di una città che regala il godimento artistico lungo gran parte delle sue vie.

La difesa ai mascheroni e ai batacchi

 

La tradizione accademica decorativa, come accennato, arricchisce gli edifici di Torino, città squisitamente barocca, ma ad essa si va ad aggiungere il segno di un’altra cultura architettonica, che ha lasciato anche sugli edifici un’incidenza profonda: quella massonica. Questa, dal momento che si tratta di una cultura esoterica, è stata assai meno studiata della prima.
Non solo gli edifici barocchi si arricchiscono di ornamenti, ma essi proseguono fino al novecento, entrando a far parte delle costruzioni architettoniche residenziali a cavallo tra il XIX e il XX secolo, caratterizzate dal cambiamento delle tecniche costruttive, le quali videro l’introduzione dell’uso del cemento armato. In quel periodo di grande eclettismo l’uso di queste figure ornamentali ebbe una bella fioritura.
La maschera ha sempre affascinato gli artisti, non solo di teatro: è un oggetto squisitamente enigmatico, mezzo adatto a determinare una rapida metamorfosi, potendo allo stesso tempo nascondere e svelare. Anche in architettura, come spesso è accaduto in teatro, la maschera, o mascherone, disegna tratti esasperati, fissando l’espressione in una forma immutabile e definitiva.
Tra i diversi mascheroni un posto eccellente è riservato al diavolo, nelle sue caratteristiche più tradizionali: la massima fioritura della bruttezza. Eppure proprio brutto e antipatico, sopra gli architravi dei portoni o sulle maniglie dei batacchi, non lo si può dire, e nemmeno brutto e cattivo.
Con le smorfiacce che fa non gli riesce difficile farci sorridere, e se poi hanno tentato di aggiungergli, per buona misura, orecchie belluine ed irsute, corna caprine, denti equini o di qualche altra specie animale, con contorno di linguacce spropositate, rischia, invece di farci paura, di farci sorridere. Falsamente truci, questi satanassi, per nulla macilenti, anzi, ornati da gote carnose, finiscono con l’attirare le nostre simpatie. Ammetto che fra gli angeli e i demoni, preferisco gli ultimi.
Così come, tra i putti, i bucrani e i draghi alati, sono certamente questi ultimi ad attirare maggiormente l’attenzione.
I bucrani, vale a dire le teste di vacche e tori (qualche volta di bufale) sono un soggetto molto interessante in archeologia e in mitologia, ma non sono sicura che siano stati posti nelle loro sedi architettoniche con una precisa conoscenza del significato, ma piuttosto siano stati scelti come soggetti idonei, per la loro plasticità, a sollecitare la creatività dello scultore. Il mondo archeologico e, fra tutti, una delle sue maggiori esponenti, Marija Gimbutas, ha ampiamente dimostrato il significato che i bucrani possedevano, quando erano posti a decorazione delle tombe ipogee neolitiche. Rappresentavano in modo perfetto l’apparato femminile, con ovaie, tube di Falloppio e utero. Erano forme rappresentative della Divinità Femminile, precedente ogni divinità maschile d’era patriarcale, in grado di dare rigenerazione ai corpi posti nella terra, cui la Dea avrebbero donato nuova vita. L’Italia è ricca di bucrani perfettamente conservati, soprattutto in Sardegna. Trovarli appesi a fianco dei portali delle case torinesi fa un certo effetto, ma sono certa che non mancheranno di dare lunga vita agli abitanti o ai frequentatori degli edifici su cui si trovano.
Del resto, non è forse il toro l’animale collegato con la città di Torino?

Draghi e serpenti, energia vitale e rigenerazione

Draghi, draghetti, serpenti e ippogrifi alati abbondano in città.
Che un drago sia sempre imparentato con serpenti e rettili, non vi è dubbio. Nell’origine del nome, e nel contenuto di alcuni racconti mitici, c’entra anche l’atto del guardare con vista acutissima: Omero stesso nell’Iliade parla del drago con vista acuta e forza leonina.
Al mondo biblico i draghi non sono mai stati tanto simpatici, come del resto i serpenti: in comune pare avessero una certa pericolosa propensione alla volontà di conoscenza e il possesso di una vasta sapienza. Caratteristiche entrambe pericolosissime, soprattutto se associate alle velleità del genere femminile. Dunque, non potevano che essere catalogati come esseri malefici, in combutta con il diavolo. Anzi, rappresentazioni del diavolo stesso.
Se un drago aveva tante teste, poi, come l’Idra di Lerna della mitologia greca, era decisamente meglio tagliargliele tutte. E come stupirci che a una tipa brutta come Medusa gliel’abbiano tagliata, la testa, se aveva tutti i serpenti al posto dei capelli? E che dire della pessima abitudine, tutta femminile, di parlare a proposito e a sproposito, come faceva l’antica sacerdotessa che abitava a Delfi, in compagnia del dragone chiamato Pitone? Via anche il Pitone, trafitto dallo stesso dio Apollo. Ed ecco la sacerdotessa, perduta la sua abilità autonoma di divinare, parlare solo per volontà del dio. Che diamine. Tutti eroi, questi uccisori di draghi, come il guerriero San Giorgio. Ben gli sta che poi l’Arcangelo Michele abbia scacciato pure il drago dell’Apocalisse dalle sette teste e dalle dieci corna: via, cacciato dal cielo.
Ma abbandoniamo lo scherzo, e cerchiamo la causa di tanta malevolenza verso questi creature costruite, in parte, dalla fantasia.
Abbiamo il sospetto che l’antipatia diretta verso il mitico essere così fortemente imparentato con sauri e serpenti, abbia attirato nel corso della storia sviluppatasi attorno alle importanti culture religiose monoteiste, un’antipatia molto simile a quella che la realtà attribuiva all’elemento femminile: in epoche storiche posteriori all’antico Neolitico, infatti, nel quale invece si ritrovano importanti tracce della considerazione attribuita ai rettili, come espressioni di forza di rigenerazione femminile, fu ingaggiata nei loro confronti una vera e propria guerra.
Nelle incisioni e sulle ceramiche della cultura neolitica, al contrario, in cui primeggiava la divinità femminile, la Grande Dea della ciclicità delle espressioni della vita, la dea stessa veniva disegnata con segni di movimento dinamico: spirali che giravano in senso centrifugo, serpenti attorcigliati e ondulanti, circoli, movimenti di innalzamento e abbassamento delle maree, corna bovine, germogli movimentati con linee spiraleggianti di crescita. Fra gli animali cari alla dea spiccava il serpente, animale capace di rigenerarsi compiendo la muta, di stare nelle viscere della terra e fuori.
Il serpente era il simbolo più importante della divinità femminile, sia nella sua forma figurata sia nella sua forma astratta di spirale: significava l’energia vitale e la rigenerazione. Ancora nella civiltà greca e romana era diffusa la credenza che i serpenti agissero da protettori del focolare e che, essendo in grado di deporre molte uova, fossero portatori di fertilità; si riteneva inoltre donassero letizia agli uomini e prosperità per i loro raccolti e le loro greggi. Anche l’arte di guarigione, esercitata nel mondo greco dal dio Hermes, era simboleggiata da due serpenti attorcigliati sul caduceo (il simbolo rimane ancora oggi sulla soglia di molte farmacie). Non dimentichiamo che nella tradizione indiana si rappresenta come un serpente attorcigliato l’energia vitale della Kundalini.
Tuttavia, come ben sappiamo, i segni e i simboli che gli uomini pensano di aver cacciato e ridotto al margine del luminoso mondo maschile, sono difficili a morire: capita che dall’oscuro mondo dell’inconscio ritornino, magari per strade secondarie, quando quasi nessuno pare più ricordare il loro significato, divenuto ormai nebuloso, e, non si sa bene perché, si assestino qua e là, su un portone, un architrave, un chiavistello, mentre inosservati sputacchiano fuoco sui passanti, posando i loro occhi di brace.
E così, dalle facciate degli edifici torinesi, draghi e serpenti, con ali e senza ali, disegnati in piccole forme o tracciati nelle dimensioni di antichi dinosauri, linguacciuti o caudati, non mancano di proteggere gli abitanti all’interno dei palazzi, donando loro un quid della sapienza delle antiche Madri, e controllando, con vista acuta, i nemici alla porta.

 

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UNITA’ D’ITALIA E NOMI FEMMINILI

UNITA’ D’ITALIA E NOMI FEMMINILI:

(servizio pubblicato su Oltre, n. 33)

Inchiostro invisibile delle Donne nel Risorgimento

Condottiere, diplomatiche e… teresine

Salotti risorgimentali

Risorgimento ed educazione, persino per le donne!

Salotti risorgimentali

Risorgimento ed educazione, persino per le donne!

Le donne piemontesi e l’educazione

Inchiostro invisibile delle Donne nel Risorgimento

Quanto mi piacerebbe scrivere un dettagliato e circostanziato articolo, lungo e pieno di nomi femminili, sulle donne del Risorgimento. E invece, nonostante le buone intenzioni, temo che dovrò faticare non poco a infilare una lista di nomi con desinenza in “a”. L’elenco può solo sembrare un poco più lungo, grazie al doppio cognome di qualche nobildonna.

Già, il Risorgimento non fu, per le donne come per gli uomini, un movimento di popolo, bensì un movimento di intellettuali, per lo più giovani, idealisti, creativi, pieni di ingegno e di fiducia nel futuro: un movimento, prima di tutto, di idee e di pensiero. E gli intellettuali, si sa, non fioriscono là dove la lotta per il pane si fa più dura.

A ben guardare le donne che si possono citare nel Risorgimento hanno tutte il doppio cognome, anche quelle che non erano nobili, perché vengono nominate con il loro cognome e con quello del marito. Avere un marito: condizione necessaria per esistere in un mondo in cui una donna, da sola, non valeva ancora un bel nulla.

Però una cosa va detta: se questa lista di nomi femminili sarà cortina, non è colpa delle donne, che al Risorgimento hanno partecipato, eccome: è colpa di una immensa omissione che il mondo maschile ha operato, dimenticando ciò che davvero le donne hanno fatto per il Risorgimento. Se il contributo che le donne di fatto diedero al Risorgimento è stato dimenticato, non è già perché non sia stato consistente e importante, ma perché la situazione di inferiorità sociale delle donne, la loro dipendenza dalla famiglia, le ha relegate in una posizione di riconoscimento marginale, ad opera del mondo maschile. Anche nella storia risorgimentale, come più in generale sempre nella storia, la lettura degli eventi e delle presenze è stata una lettura misogina, costruita esclusivamente sul versante maschile. Se qualcosa è stato documentato sulle donne, sembra che sia stato scritto con inchiostro che scompare.

Così, anche quando oggi si ricorda qualcuna di queste donne, le si ricorda, come sempre, non come persone, ma come mogli o come madri. Anita Garibaldi perché era la moglie del condottiero, Teresa Casati Confalonieri perché era la moglie di Federico Confalonieri, Giulia Beccaria perché… L’unica che di solito non è accompagnata da nessun nome maschile è la contessa di Castiglione: nessuno sembrava ricordare, nemmeno quando era in vita, che era maritata. E infatti le è stata attribuita la giusta nomea per una donna che pretendeva di essere indipendente, e non le sono stati risparmiati alcuni sfondi erotico-sessuali, si dice abilmente sfruttati da Cavour.

Conservo ancora gelosamente il libricino, con coccarda tricolore in copertina, che la scuola elementare mi donò nel 1961, al Centenario dello Stato italiano. Ricordo di averlo letto golosamente, di aver tremato fra quelle pagine alle sorti delle battaglie, di aver risuonato con tutte le trombe di quei racconti (ed erano tante!), di aver combattuto a fianco del mio eroe (Garibaldi); ispirata da quel libro osai (ahimè) dipingere su tela la mia opera prima, intitolata “La battaglia di Calatafimi”. Insomma, non esagero se dico che quel piccolo libro, scritto in caratteri minuti, ebbe un suo peso nella mia formazione.

Un po’ per vezzo, un po’ sul serio, l’ho ora ripreso in mano e, con una certa religiosità, ho riaperto quelle pagine. Cercavo, fra i miei preziosi tesori d’infanzia, qualche nome di donna, che giustificasse, in senso femminile, la mia passata adesione alla causa risorgimentale, che potesse alimentare, oggi, nell’età adulta, il fondamento di qualche certezza dell’importanza che il genere cui appartengo potesse aver rivestito, anche allora. Che delusione: non ne ho trovato nemmeno uno.

Mi devo rassegnare. Tuttavia ho la certezza che le donne operarono personalmente o a fianco dei loro familiari, e al pari degli uomini, soffrirono. Così proseguo la ricerca, ampliando la camera dei tesori perduti, dal singolo libricino a qualche scaffale della biblioteca di casa e, munita di qualche volume, mi risiedo alla scrivania.

Ora sono attorniata, alla mia sinistra, dal bel volto dell’eroina, cui è sempre andata la mia predilezione, fra le donne risorgimentali, Anita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva Garibaldi; un poco più in là dall’ovale stampato mi osserva la politica, la bella contessa prima nominata, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione mentre, spostata un po’ più sulla destra, scalpita, con un ginocchio piegato, Teresina.

Comincerò da loro a raccontare le donne del Risorgimento, e non già perché furono più importanti di altre, semplicemente perché la loro immagine e il ricordo della loro presenza in quel periodo della storia è rimasta nella memoria personale di chi scrive in modo più duraturo, e sono certa che ora queste donne non possono deludere il romanticismo patriottico, spudoratamente ingenuo, di una bambina che per mezzo secolo le ha portate nel cuore.

Di chi fossi più innamorata non lo so. Non sapevo, ieri come oggi, chi preferire.

Lo so che oggi ci sono ben altri miti; perdonatemi.

 

Condottiere, diplomatiche e…teresine

Anita, la condottiera: fu per lei che piansi, decenne, tutte le mie lacrime, identificandomi nell’eroina della nostra patria, accanto all’amato generale (amato, sia chiaro, da lei, ma anche da me). Si può dimenticare il primo amore?

A ripercorrere oggi la sua biografia, le righe che la riguardano mi lasciano un po’ perplessa: tutto quell’eroismo, che allora mi faceva impazzire e ribollire di passione, non ce lo vedo più. Possibile, mi chiedo, che fosse davvero questo, il mio modello di donna?

E anche il generale, suvvia, in qualche momento, persino un personaggio di feuilletton. Per esempio quando vede Anita sulla spiaggia di Laguna, sbarca, attratto dal magnetismo dei suoi occhi che da distante ha osservati con il cannocchiale, la cerca ovunque, e quando la trova, le si avvicina dicendole: «Tu devi essere mia». Ma insomma! Com’è che lei non gli ha mollato due sganassoni?

Eppure… come mi sembrava, un tempo, romantico!

Comunque: la diciottenne Anita non doveva pensarla come me, se non esitò un attimo a seguire l’audace marinaio trentaduenne, capitano di alcune piccole navi, che si dedicavano alla guerra corsara contro la flotta imperiale brasiliana. Fu lui stesso a raccontare tutta la storia nelle sue Memorie. Così, Anita decise di essere “sua” e si trasferì a bordo della nave del corsaro, e da corsara condusse una parte della sua vita. Il resto la trascorse da condottiera, accanto al suo compagno, con cui condivise, oltre alla famiglia e a lunghi periodi di indigenza, le spedizioni in più continenti, le marce a cavallo, le guerre. L’ultima campagna di guerra e di fuga le costò la vita.

Nel 1849 è con Garibaldi a Roma per la proclamazione della Repubblica Romana, che però avrà vita breve. Gli eserciti francese e austriaco vogliono ripristinare il potere papale e attaccano. Inizia la strenua resistenza dei garibaldini, ma infine sono costretti alla fuga: una marcia forzata attraverso la penisola. Garibaldi, Anita e il Capitano Leggero, fedelissimo di Garibaldi, rimangono insieme nella fuga. Anita è incinta, al quinto mese di gravidanza, sta male, ma deve affrontare l’ultimo calvario a cavallo, fra i sentieri di montagna, gli attraversamenti a guado dei fiumi, le lunghe marce a piedi. Quando arriva alla paludosa regione di Comacchio, così simile al luogo dove in Brasile era nata, perde conoscenza e, dopo un ultimo traghetto su una piccola barca, a soli ventotto anni, muore.

Al Gianicolo, il monumento della sepoltura la rappresenta a cavallo col figlioletto al collo in atteggiamento di galoppo. Per volontà del marito, nel 1859 le sue spoglie vengono trasferite a Nizza, dove Garibaldi pone il seguente epitaffio: “Al santuario venduto de’ miei padri avranno stanza le tue reliquie e d’altra donna amata, Madre ad entrambi, adornerai l’avello!”.

Il destino e la geografia sparpagliarano i loro cinque figli, riservando loro vicende di vita disparate.

Oggi, se alcuni toni zuccherosi che riguardano la nostra eroina ci sembrano melensi al pari di una telenovela, continua tuttavia a spiccare una certa forza da alcuni suoi ritratti: è sempre raffigurata accanto al suo uomo, in posizione paritaria, fianco a fianco, spesso sui loro destrieri.

Chissà, forse inconsciamente, le bambine di cinquant’anni fa hanno sempre colto quella promessa di emancipazione che la sua figura emanava dalle cornici.

La seconda figura femminile, Virginia, che colpì il mio cuore, era bella, bellissima, forse la più bella donna d’Europa. Non doveva essere uno stinco di santa: immensamente egoista. Ma era intelligente, intelligente e scaltra.

La sua data di nascita fu motivo di smemoratezza per lei stessa, ma non per i maligni (1837): occhi di intenso verde azzurro dalle sfumature ametista, una certa propensione per l’amore e mente lucida e fredda. Andò in sposa al conte Francesco Verasis di Castiglione Tinella e di Costigliole d’Asti, cugino di Cavour, il quale sapeva benissimo quale gatta da pelare andava a prendersi, ma era pazzo di lei, che non aveva ancora diciassette anni.

Nonostante il suo raffinato egoismo, la bellissima nutriva idee favorevoli per la causa risorgimentale, alla quale pare aver dato un contributo del tutto personale, se così si può dire, avvincendo con le sue arti l’Imperatore Napoleone III, e convincendolo poi a sostenere la causa dell’indipendenza italiana. Si dice che le sia stato sufficiente un incontro con lui di una mezz’ora, da cui uscì con una collana di perle a cinque giri, un appannaggio mensile di cinquantamila franchi e… una grande simpatia dell’Imperatore per la causa italiana. Del resto Cavour l’aveva implorata: «Non importa quali mezzi userete, ma riuscite».

Questo è ciò che venni a sapere qualche anni dopo la fine delle elementari. Meglio così.

Malignità, nient’altro. Malignità che non pesarono su di lei più che una piuma di cui farsi ornamento. Che non servirono per nulla a svilire la mia gratitudine verso questa eroina della causa italiana, né sull’immagine di grandezza che di lei mi ero formata, nell’atteggiamento di chi, valorosa diplomatica, lavorava fianco a fianco del grande statista Cavour. Del resto, come molti, conobbi il significato del nome di escort solo molto più tardi.

E poi, ciò che conta è rimasto nella storia. Nel maggio-luglio 1859, Napoleone III con l’esercito francese venne in Italia e aiutò a sconfiggere le forze austriache, e da questo si originò l’unificazione d’Italia (nonché il passaggio alla Francia della Savoia e della regione di Nizza!). Tutto il resto è regno del pettegolezzo.

Il terso personaggio che ha lasciato un impronta nella bambina di cinquant’anni fa non è altrettanto storico quanto i due precedenti, eppure ha aleggiato nei cuori dei soldati in periodo risorgimentale, più di molti personaggi la cui veridicità storica sia stata accertata. Ve lo ricorderete subito, non appena leggerete il ritornello: “ O la bella Gigogin col trollallarillarillallera/ oi la bella Gigogin col trollallarillalillallà…”.

Gigogin, diminutivo piemontese di Teresina, fanciulla quindicenne vista per un giorno e vagheggiata per sempre: era il 22 marzo del ’48, si dice, quando dal Piemonte arrivò a Milano per partecipare alle barricate. A Porta Tosa, si narra, scoppiò l’amore fra lei e Mameli. È lei che per la prima volta, almeno nell’immaginario popolare, intona la canzone e canta: “Daghela avanti un passo”, verso che incita a fare un passo verso lo straniero e a vincerlo. Lo straniero era, come sempre, l’Austria.

Sarà mai esistita Gigogin? E chi lo sa. Lei sparì, ma il canto rimase per sempre.

Salotti risorgimentali

Oggi, dire che fare salotto, tenerlo o parteciparvi, sia un’azione rivoluzionaria, farebbe ridere chiunque. I più educati atteggerebbero le labbra a sorriso. Abbiamo infatti un’idea di salotto, come di qualcosa di perfettamente inutile e perditempo. Cose per sfaccendati senza nulla di più importante da fare, cose per gente priva di degna occupazione.

Eppure due secoli fa non era così.

Dobbiamo immaginare un mondo senza radio né televisione, scarso di giornali, insomma privo di quei canali di comunicazione di cui oggi noi godiamo, e talvolta abusiamo, pur lamentandoci in continuazione. Ebbene, i salotti, erano quei luoghi in cui avveniva lo scambio di informazioni, sia di genere politico che mondano: gossip non era una parola usata, ma con ogni probabilità già praticata.

Non dobbiamo però pensare che i Salotti avesse accesso chiunque: pochi erano gli ammessi, solo coloro che avevano le carte in regola per prendervi parte: lignaggio, istruzione, cultura, in una parola, educazione. A parteciparvi era l’aristocrazia e l’alta borghesia. Buoni meriti per meritare un invito all’accesso erano le capacità intellettuali, artistiche, e letterarie. Ma per davvero, non per finta. Così, tanto per sgombrare il campo da dubbi o equivoci, che i tempi in cui viviamo purtroppo suscitano, sia chiaro che non servivano né cosce lunghe, né… come dire, disponibilità umana alle relazioni.

Il Salotto stesso esercitava una funzione educativa, formando gli ospiti a una raffinata arte della conversazione, nel rispetto dei ruoli. Gli ospiti invitati nel Salotto, a loro volta, erano legittimati dalla loro stessa presenza e partecipazione al gruppo, tanto da acquisire, con questa stessa appartenenza, rispettabilità. Insomma, diciamo che le cose andavano un po’ diversamente da oggi.

Fino a qui però ancora non è chiaro che cosa tutto ciò avesse a che fare con il Risorgimento. Ma va detto che, al di là del piacere per le riunioni periodiche dell’aristocrazia italiana, i Salotti assunsero presto un carattere politico esplicito.

Molti di essi diedero un contributo importante nella formazione e nella circolazione di idee indipendentiste, progressiste; in molti dei Salotti si coltivarono le amicizie di coloro che divennero tessitori e condottieri del nuovo Stato.

Capi indiscussi dei salotti, conduttrici delle conversazioni garbate ma sostanziose, mecenati artistici, furono le donne, le padrone di casa, regine incontrastate del Salotto, alle quali si doveva l’impronta particolare e riconoscibile delle caratteristiche degli ambienti. Il modo con cui le presenze s’intrecciavano, fra parole bene educate, era solo la padrona di casa a stabilirlo, consegnando al Salotto il segno della sua personalità e il suo tocco inconfondibile, e permettendo a idee e destini di svolgere le loro trame.

Si tennero Salotti nei principali città italiane.

A Torino, il Salotto forse più noto apparteneva alla baronessa Olimpia Savio di Bernsteil, la quale fu poetessa e scrittrice. Lo chiamò “Millerose”, dal nome del palazzo che era la residenza estiva dei Savio. Fra le frequentatrici del salotto vi era anche la marchesa Giulia Falletti di Barolo. La baronessa Savio tenne ogni settimana riunioni che avevano un carattere molto letterario, affollate di letterati e artisti e politici.

Annotò in un diario il mondo del suo Salotto, e questo è uno dei motivi per cui se n’è conservata memoria. Oltre al diario ha lasciato un carteggio in cui dialoga con molti personaggi italiani di rilievo. Nel 1909 il discendente di casa Savio, il barone Federico Savio, prese la decisione di ricavare un libro dalla ricca documentazione da lei lasciata: furono così date alle stampe le Memorie della baronessa Olimpia Savio, in due volumi, edito dai Fratelli Treves. Il libro fornisce notizie accurate della Torino del XIX secolo.

Risorgimento ed educazione, persino per le donne!

Prima dell’unificazione del nostro stato e della nascita del Regno d’Italia, tra la popolazione dei diversi stati preunitari, si annoverava un bel tasso di analfabetismo: più dell’80%, nelle regioni più sfortunate.

Fra tutti, il primato era riservato alle donne: solo una su otto maschi (o ancor più di otto) sapeva apporre la propria firma.

Fatta eccezione per l’aristocrazia e la borghesia, in cui le giovani fanciulle erano utili strumenti di tessiture sociali, attraverso i matrimoni, le donne, in buona sostanza, erano considerate negli strati inferiori della popolazione, alla stregua di bestie da soma. Che poteva loro servire la cultura?

Il loro destino era solo il lavoro, la riproduzione, l’accudimento dei figli, la cura della famiglia. Nulla di più inutile, dunque, del lavoro della mente. Anzi, l’istruzione poteva apparire persino pericolosa, di ostacolo alla formazione di una buona disposizione, nel soggetto femminile, all’obbedienza, qualcosa che poteva persino far venire dei grilli per la testa: un intralcio al servizio che le donne avevano il ruolo di compiere per la famiglia e, attraverso di essa, alla società.

Quando veniva fornita un po’ d’istruzione alle donne, riguardava, semmai, l’economia domestica e un po’ di catechismo: con qualche dogmatico insegnamento religioso avrebbero seguito con migliore aderenza le regole imposte.

Alfabeto e sistema metrico decimale giunsero molto più tardi, dopo l’unificazione e dopo la legge Casati, che prevedeva l’istruzione (persino!) per le donne.

Per la verità già Carlo Felice nel Regno di Sardegna aveva emanato nel 1822 un Regolamento che instaurava l’istruzione obbligatoria: ma tutto era rimasto su un piano puramente teorico. Infatti, non si passò mai alla realizzazione del progetto, per mancanza di fondi. Inoltre, nel periodo della Restaurazione, aleggiava un pesante clima oscurantista e la scuola era dominata dai Gesuiti. Unico segno di apertura fu a Torino la creazione di un collegio per la formazione d’insegnanti laici che, nel 1844, venne affidato a Ferrante Aporti, fermamente osteggiato da tutto il clero. Lo stesso Aporti fu il propulsore, in Piemonte, degli asili d’infanzia: nel 1831 ne aprì uno, con refezione, per i poveri.

A favore del Piemonte, peraltro, va ancora oggi il riconoscimento di una politica della cultura schiettamente nazionale. Infatti, nella regione, già nel decennio di preparazione dell’Unità, dal ’48 al ’59, si raccolsero gli spiriti più nobili, i quali erano consapevoli in modo profondo della centralità del problema dell’istruzione e della scuola (anche per i soggetti femminili), la cui risoluzione si vedeva con chiarezza camminare di pari passo con il Risorgimento della patria e con l’evoluzione dell’avvenire del Paese.

Malgrado molte lacune, le novità della legge Casati del 1859 non furono poche: venne istituita la prima scuola elementare per tutti, di quattro anni, con un biennio inferiore ed uno superiore; si insegnavano religione, lettura e scrittura, aritmetica e sistema metrico decimale, la lingua italiana, la geografia e la storia nazionale. Le Scienze fisiche e naturali si osservavano nell’applicazione agli usi della vita quotidiana. L’istruzione elementare era a carico dei comuni, restando pero’ di competenza del ministero della pubblica istruzione i programmi e le didattiche.

Una divisione si stabiliva ancora tra corsi per maschi e per femmine, in cui s’insegnavano anche i “mestieri donneschi”. Però la scuola, anche per le femmine, c’era. E scusate se insisto, ma davvero mi pare che proprio a quel punto si possa far risalire la vera rivoluzione per l’istruzione in generale, e in special modo per quella femminile.

La scuola elementare era obbligatoria per tutti ma occorrerà attendere sino al 1877 per ribadire il connotato di obbligatorietà.

È pur vero che, dopo l’unificazione dell’Italia, molte famiglie erano restie, o addirittura contrarie, ad accettare l’idea di un’istruzione per i figli, tanto più se femminile, convinte com’erano che per una fanciulla l’educazione fosse inutile; per di più recalcitravano a rinunciare al poco guadagno derivato dal lavoro minorile.

Tuttavia, furono soprattutto i figli del popolo e della piccola borghesia a usufruire al diritto pubblico allo studio, poiché l’aristocrazia e l’alta borghesia continuarono ancora per un po’ a fornire ai propri discendenti un’educazione privata, che veniva considerata di maggior valore.

Oggi, tempo in cui sta andando nuovamente perduto il concetto di una scuola di stato (la scuola statale non esiste più, è sostituita dalla scuola pubblica), credo che ci potrebbe fare un gran bene tentare un’immersione, per quanto breve, nelle idee pedagogiche del nostro Risorgimento, quando le menti erano fermenti di idee e i cuori fibrillavano di sentimenti generosi.

Siamo così sicuri di voler assecondare le idee che oggi circolano, nuovamente così favorevoli all’istruzione privata; siamo così certi di voler rinunciare a quanto l’Italia ha così faticosamente conquistato, con tante vite e tanto sangue? Davvero vogliamo rinunciare all’esercizio, da parte del popolo, di quei diritti che per 150 anni lo Stato ha concesso e garantito, attraverso un’efficace istruzione?

Non è più, la statalità della scuola pubblica, una condizione da preservare tenacemente, insieme con quello di obbligatorietà e di gratuità dell’istruzione?

Oggi, nella nostra zoppicante Italia, si tende a scordare che sono forse proprio le donne coloro che si sono emancipate di più, soprattutto grazie all’istruzione; nessuno più ricorda qual era la condizione della donna, nel tempo prima della scuola di stato, della sua obbligatorietà e gratuità. Sempre più spesso mi viene il dubbio che, di dimenticanza in dimenticanza, stiamo percorrendo dei vigorosi passi indietro.

Le donne piemontesi e l’educazione

Nel panorama risorgimentale a Torino si distinsero le opere educative di due donne che portavano lo stesso nome e, sebbene in modi diversi, lottarono per l’educazione delle donne: Giulia Falletti di Barolo e Giulia Molino Colombini.

Giulia Molino Colombini, torinese, fu letterata e educatrice; rimasta vedova con un piccolo appena nato, all’età di ventidue anni, divenne esperta in pedagogia, dedicò la sua vita al progresso dell’istruzione popolare, in particolare femminile. Si occupò essenzialmente dell’educazione della donna, per la quale sosteneva la necessità di una cultura larga e solida, e lasciò un segno sia con il suo operato, sia con i suoi scritti, fra i quali “Sull’educazione della donna” e “Lettere di una giovane madre che vuol educare da sé la sua bambina”. A Torino costituì la sezione femminile per lo studio delle lingue del Circolo Filologico.

Giulia Colbert di Maulevrier, sposata con il marchese Tancredi Falletti di Barolo, dedicò la propria vita alle donne: alle più umili e disgraziate, le carcerate. Si servì del proprio lignaggio, dell’affidabilità e del potere della propria famiglia per lottare, in ogni modo, per migliorare la condizione della donna in carcere.

La Torino risorgimentale, capitale del Regno, era bella; la vita vi scorreva dolce e intensa di animazione culturale. Ma solo per borghesi e aristocratici. Su una fitta rete di viuzze si affacciavano, poco distanti dalle vie porticate, abitazioni malsane e degradate, popolate di diseredati. Ieri come oggi, i più disperati non avevano nemmeno una casa dove abitare. Le donne, al pari degli uomini miserabili, vivevano di espedienti, furti, accattonaggio, cui si aggiungeva la prostituzione. Alle carcerate si dedicò Giulia di Barolo: ce ne rimane ampia testimonianza da parte di Silvio Pellico, che la conosceva bene, e scrisse “La Marchesa di Barolo nata Colbert”, a lei dedicato.

Nelle carceri Giulia portò conforto, cibo, abiti, e istruzione! A insegnare, instancabilmente, fu lei stessa, aiutata da un alfabetiere di grandi dimensioni.

Creò l’Ospedale di Santa Filomena per ragazze storpie e inferme. Poi creò per le donne “Il Rifugio”, aperto a quelle che chiedevano di essere ammesse e, trascorsi due o tre anni, ne uscivano, dopo aver imparato un po’ d’alfabeto e qualche mestiere. Nel Rifugio confluivano le Maddalenine. E sia chiaro che erano bambine sotto i dodici anni, che avevano già subito violenza e stupro da parte di familiari o estranei. Nella loro breve vita non erano mai state avvicinate da nessuno, prima, con l’amore che Giulia portò loro. Del resto l’aveva dichiarato a Tancredi, quando era giunta sposa a Torino: “Il mio giorno di vita non lo passerò ozioso. Andrò e cercherò gli afflitti”.

 

 

 

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IL CIELO IN UNA STANZA, PLANETARIO E OSSERVATORIO ASTRONOMICO

Il cielo in una stanza:

planetario e osservatorio astronomico

(articolo pubblicato su Oltre, n. 32)

Per mille anni e più fu l’astrolabio, lo strumento con il quale affrontare l’osservazione del cielo.

La posizione del Sole e delle stelle erano riportate, durante l’anno, su un disco che poteva essere ruotato e posizionato in modo da rappresentare la volta celeste di un dato momento. A colpo d’occhio lo strumento permetteva di capire quali astri fossero visibili in quel momento, quali fossero prossimi al sorgere e quali si accingevano a tramontare. Lo strumento ebbe lunga vita, quasi mille anni: gli ultimi esemplari arrivano al XVIII secolo. È rimasto sostanzialmente immutato per tutto quest’ arco di tempo, usufruendo dell’apporto di modestissime varianti.

Oggi, invece, per conoscere e far conoscere il cielo, abbiamo strumenti assai più sofisticati.

Un po’ di magia lo strumento di cui parliamo ce l’ha anche con le luci di servizio, o per così dire “normali”, grazie alla pianta architettonica circolare, alle comode poltrone che si susseguono a cerchio, e soprattutto grazie alla volta a cupola che sovrasta le teste, che già a partire dalla sua forma suggerisce molte promesse. Poi, allo spegnimento delle luci di sala, diventa chiaro che il cielo sta per entrare nella stanza. All’accensione delle prime forme, proiettate nel buio, sulla volta che funge da schermo, ecco che la magia prende forma. Compaiono gli astri, e poi le stelle. Sono lì, sopra di noi, comodamente seduti sulle nostre poltrone, come se potessimo toccarle con un dito. Le stelle di oggi? Forse, se vogliamo: come si presenterebbero in una notte pura e stellata, se tutte le condizioni confluissero a fornire le premesse ideali.

Quante volte abbiamo cercato, magari in una notte estiva, di orientarci nel cielo sopra di noi? Con pochi elementi in nostro possesso, a occhio nudo, abbiamo cercato di cavarcela alla “meno peggio”. Raramente c’era qualcuno che ci spiegasse, ci guidasse.

Ma qui c’è. Qui le stelle vengono nominate con i loro nomi precisi, vengono seguite nella loro traiettoria, visibile in proiezione e “riassumibile”, se lo si desidera, in uno spazio di tempo accorciato. Allo stesso modo si possono abbreviare i tempi del succedersi delle fasi lunari, o delle stagioni, e quelle dei viaggi dei pianeti nel cielo. Volendo esagerare si potrebbe tornare indietro in un viaggio virtuale nel tempo, raggiungendo un cielo di migliaia di anni fa, o proiettarci in avanti, in un cielo a venire. O potremmo spostarci di latitudine, immaginarci in una calda notte equatoriale o in una altrettanto interessante ma gelida, sera polare.

Tutto questo ci è permesso in un Planetario: meraviglioso strumento per simulare il cielo e vederlo, in proiezione, in un modo che ci aiuta a comprenderlo. Ed è uno strumento, bisogna dirlo, di grande fascino.

Sotto il cielo, che mutava con il passare delle ore notturne, gli antichi individuavano, a occhio nudo dapprima, poi con alcuni strumenti, la posizione di alcune stelle; forse per memorizzare attribuivano agli insiemi di stelle, le costellazioni, le forme degli animali. Nacquero così i miti riguardanti il cielo.

Ora lo spettacolo della volta stellata è visibile anche nel Planetario di Alpette, paese del Canavese che negli ultimi mesi ha fatto molto parlare di sé, grazie alle interessanti iniziative che con buona frequenza partono proprio da quel comune. Ebbene, lì, nel nuovo Planetario che ora arricchisce le offerte culturali del Canavese, Sole, Luna, pianeti, stelle, nebulose e galassie sono di scena sul soffitto a cupola semisferica, senza che si possano distinguere per importanza primi attori e comprimari: tutti gli elementi del cielo contribuiscono a fornirci una possibile occasione di lettura.

Ad Alpette già dal 1972 esisteva un Osservatorio astronomico con una cupola metallica di cinque metri e mezzo; attualmente la struttura dell’Osservatorio ha a disposizione un telescopio con cui si possono scorgere stelle cinquemila volte più deboli di quelle che normalmente l’occhio umano è in grado di percepire; è inoltre in grado di fotografare nella notte stelle la cui luce equivale, con un’immagine un po’ poetica, a una candela accesa distante 3500 chilometri.

L’Osservatorio svolge da tempo attività divulgativa, cui ora si aggiunge l’attività più specificamente didattica del Planetario, inaugurato nel trascorso mese di ottobre. Senza muoversi dalla poltrona i gruppi che vi accederanno potranno vedere il cielo di una certa ora in un certo luogo, oppure, per mezzo di sofisticati mezzi digitali; potranno partire, senza alzarsi dalle poltrone, per avventurosi viaggi alla scoperta dei più affascinanti oggetti che popolano l’Universo, fra nebulose e meteoriti, senza correre alcun pericolo, anche se li percepiranno in rapida traiettoria diretta verso di sé.

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TORINO ESOTERISMO E MISTERO

TORINO ESOTERISMO E MISTERO

(servizio pubblicato su Oltre n.32)

Nodi e ley lines

Dove comincia la curiosità per il Graal

Grande Madre e Gran Madre

Nodi e ley lines

Esoterismo richiama l’attenzione su ciò che è interno e indica una dottrina, o un complesso di dottrine, di carattere segreto, intrinseco, essenziale, i cui insegnamenti sono riservati a una cerchia di persone.
Ecco perché io penso che la città di Torino abbia buone ragioni per essere definita una città esoterica. È noto lo stanziamento nella città di confermati gruppi esoterici.
Non sono per niente certa, invece, che vi siano altrettante buone ragioni quando la città si trovi investita dall’attribuzione di caratteristiche di città magica. La magia, infatti, si serve di forze occulte, sottoponendole a dominio, per raggiungere forme di potere tanto sul mondo spirituale quanto su quello fisico.
Quando si parla di Torino nei suoi aspetti più “strani” si fa un gran calderone, mettendo insieme le sette segrete che vi troverebbero ospitalità, insieme alle espressioni architettoniche di figure “diaboliche”, insieme alla forte storica presenza della Massoneria, insieme alla volontà di potere della famiglia reale che qui visse e regnò, insieme alla meravigliosa speciale caratteristica di aver dato vita nel corso della sua storia a una quantità veramente considerevole di iniziative, attività, forme di arte… e persino all’esistenza di uno stato, quello italiano.
Sarà per quella nebbiolina violacea che, soprattutto in passato, accompagnava i suoi lunghi inverni, sarà per il carattere dei suoi cittadini, schivi, apparentemente razionali e invece spudoratamente inventivi e creativi, sarà per la ricercata inquietudine della sua popolazione, sarà per quel certo gusto verso ciò che è nascosto, per le esplorazioni segrete svolte con discrezione. Sarà per la connessione nella sua storia e nelle sue leggende con l’antico Egitto, con la presenza in città di un museo egizio, pari per importanza solo a quello del Cairo.
Sarà per gli intensi bisogni spirituali che la sua gente ha sempre dimostrato, spingendola verso forme diverse di religiosità o di ricerca spirituale, per le grandi espressioni di fede e santità che qui si sono realizzate. Sarà sicuramente per la presenza sul luogo di monumenti, templi, oggetti sacri assolutamente speciali… insomma i dati particolari certo non mancano.
Sarà per la supposta presenza, nelle viscere della sua terra, del passaggio di ley lines, che ne farebbero un centro di particolare importanza per la comunicazione sottile di idee e di pensiero. Le ley lines, furono teorizzate nel 1921 da Alfred Watkins in base a una sua improvvisa intuizione, basata sull’osservazione che gran parte dei siti preistorici, gli imponenti megaliti e i crop circles, come i più importanti edifici di culto, fossero stati edificati sulle traiettorie di precise linee. Le ley lines, o linee di prateria, sarebbero dunque delle linee ideali che percorrerebbero l’intera superficie terrestre, incrociandosi tra loro. Proprio su questi incroci sorgerebbero i templi e i luoghi sacri. Sotto di esse, parallelamente ad esse, ma sotto terra, scorrerebbero fiumi sotterranei; inoltre sarebbero presenti filoni di minerali metallici. Lungo queste vie si troverebbero delle porte di accesso ad altre dimensioni, e i nodi di incrocio sarebbero popolati da fate, streghe e altri esseri fantastici. Possiamo immaginare queste linee come grandi fiumi di energia che circondano il nostro pianeta e lo collegano all’Universo, attraverso i quali possono viaggiare idee e pensieri. I nodi sulle ley lines sarebbero paragonabili ai chakra (sarebbero i chackra del pianeta). In prossimità di nodi i ritroveremmo dunque i luoghi che definiamo sacri: punti di incontro e di confluenza tra dimensioni e stati di coscienza diversi. Molte supposizioni portano a ritenere Torino un nodo importantissimo.
Da torinese doc mi dispiaccio un po’ quando sento accostare il nome della mia città all’esercizio di pratiche magiche di bassa lega, alle forme più deleterie di diavolerie, quando sento insistere sulla possibilità che vi si svolgano riti satanici o vi operino gruppi dediti al male e alla negatività. Non escludo che anche a Torino, come dovunque, ciò sia possibile, ma preferisco pensare alla luminosità di pensiero di tante persone che qui hanno lavorato per il bene comune, progettando un mondo migliore.
Quanto al senso del misterico, dell’occulto, di quel quid che senza alcun dubbio va oltre il velo della nostra sottile ignoranza, che oltrepassa la nostra capacità di ragione, mi sento nella condizione di accettare la possibilità che una variazione di percezione, più sensibile e acuta, attraversi il nostro mondo. Con rispetto, con sensibilità mi dispongo ad avvicinare questi aspetti della città di Torino.
È con questo spirito che questa rivista si occuperà della Torino esoterica.

Dove comincia la curiosità per il Graal

Certamente nel XIX secolo si è riacceso l’interesse per la storia del Graal, iniziata nel Medioevo, alla fine del 110, e sopitasi sotto la brace nei secoli successivi. Il poema Perceval o Conte de Graal compare nel 1185 e sebbene l’autore Chrétien de Troyes dica di aver basato il suo racconto su una storia preesistente, è con questo poema che si fissa il punto zero della nascita del Graal, o quantomeno della letteratura sul Graal; l’opera è peraltro incompiuta e abbandonata nel bel mezzo degli accadimenti di un episodio.
Nel 1200 Wolfram von Eschembach riprende i temi del Perceval, narrando secondo il punto di vista del protagonista, e poi perdendosi fra mille rivoli narrativi laterali, che s’intrecciano fra loro e con il racconto principale, complicando le gesta dell’eroe protagonista.
Poi si conobbe L’Estoire du Graal di Robert de Boron. Qui si risale alla ricerca delle origini del Graal tracciandola nella coppa servita nell’Ultima cena di Gesù, in cui fu poi raccolto il sangue del Cristo da Giuseppe di Arimatea. Fu lui a trasportare il prezioso calice in Bretagna. Ci si trova dunque di fronte a un’attribuzione al Graal di caratteri cristiani. Ciò avviene in questo testo per la prima volta.
Ecco comparire sulla scena fra il 1210 e il 1220 tre volumi, da attribuirsi con ogni probabilità ad autori diversi, ma così simili nello svolgimento del tema, da formare un corpus narrativo unico. Qui si stabiliscono i legami fra le avventure del cavaliere Lancillotto e l’eroe alla ricerca del Graal: il primo, infatti, non coincide in questo caso con il secondo, intepretato dal suo stesso figlio Galahad. La narrazione, che comprende tre romanzi distinti, è conosciuta impropriamente come I Graal di Lancillotto, fu attribuita a un solo autore, sotto lo pseudonimo unificatore di Gualtiero Map. Parte dal racconto dell’infanzia di Lancillotto, delle sue prime audaci prove, passa attraverso l’epopea di Artù, fino a centrarsi più specificamente sulla ricerca del Graal.
Con la fine delle guerre di Artù, insieme con lo spirito guerriero, si assopisce anche l’interesse per il Graal.
Rimarrà in sonno per alcuni secoli, e si riaccenderà solo molto più tardi, nel 1800, grazie a riedizioni del Perceval di Wolfram von Eschembach e delle Storie di Re Artù e dei suoi cavalieri, dove Thomas Malory nel XVII secolo narrò del “Sangreal”.
Ed ecco che negli ultimi anni del ‘900 divampa una nuova fiamma d’interesse per il Graal, a partire dal film di John Boorman, Excalibur, al romanzo Le nebbie di Avalon di Marion Bradley, fino al libro Il codice Da Vinci di Dan Brown, scritto nel 2003, pubblicato in Italia nel 2005, da cui è stato ricavato il film uscito nella primavera del 2006 nelle sale cinematografiche.

Grande Madre e Gran Madre

La definizione di Grande Madre appare tardi nella storia, ma il culto di una Dea generatrice, precedente ogni divinità maschile, data millenni, e si avvale di immagini collegate con il mondo della natura, prospera, sensuale e generatrice. Con lo scorrere del tempo, con gli spostamenti dei popoli, con l’intrecciarsi delle combinazioni di etnie e di culture e con la crescita di complessità delle culture, si assegnarono molti nomi alla dea, che pure mantenne vive caratteristiche simili presso popoli diversi.
Grande Dea, Grande Madre furono dunque nominate Inanna, Ishtar, Iside, Astarte, Afrodite, Venere, Demetra, Persefone, Ecate. In area mesopotamica vi furono Inanna o Ishtar, in area anatolica Cibele, in area etrusca ci fu Mater Matuta, i Romani ebbero Bona Dea o Magna Mater, l’area celtica vide la Dea Bianca, solo per nominare alcune personificazioni.
La “Gran Madre” cui fa riferimento il nome della Chiesa torinese della Gran Madre di Dio non è forse solo la Madre di Gesù, o la Madre di Dio, ma rammenta la figura della divinità preistorica, procreatrice di tutte le forme viventi, quindi di tutti gli uomini, signora degli animali e delle piante, prototipo di ogni forma di divinità di ordine femminile della mitologia classica e delle religioni del passato. La cosa non è poi così strana, dal momento che un persistente racconto, caro ai torinesi, che da tempo accompagna la città, ci dice che i resti di un antico tempio, alla base della costruzione neoclassica che oggi conosciamo, appartenessero a un antico tempio dedicato alla dea Iside.
Scavi archeologici su un antico tempio dedicato a Iside, divinità di origine egiziana, di fatto, sono state messe in luce in un altro sito, distante 35 chilometri da Torino, nel comune di Monteu da Po, fin dal 1754: si tratta del luogo di cui già Plinio il Vecchio ci dava notizie. Il luogo coincideva con la città romana di Industria, fondata sulla riva destra del Po. Del tempio di Iside, costruito in età augustea, resta l’imponente podio rettangolare, circondato da un recinto e preceduto dal pronao. Certamente non era l’unico tempio dedicato alla grande divinità, dai molti nomi, che si ergevano sul territorio che oggi definiamo come regione Piemonte, né lungo le rive dello splendido fiume, un tempo navigabile.
Il legame del luogo della Gran Madre con un tempio di Iside, o Iseion, e con la divinità di origine egizia, è tutt’altro che improbabile. Occorre tra l’altro dire che il legame di Torino con la civiltà egizia fu ampiamente trattato in testi storici, come nelle leggende che accompagnano l’interesse per le origini della città.
Quanto alla preesistenza di un iseion sotto la Gran Madre, occorre dire che è accaduto in numerosissime occasioni che chiese cristiane siano state edificate in luoghi in cui erano preesistiti templi dedicati a divinità più antiche, che li avevano preceduti. Certamente il nome scelto per la chiesa torinese induce a pensare agli antichi culti pagani per la Grande Madre, oltre a quello cattolico per la Madre di Dio.
La Chiesa della Gran Madre di Dio fu costruita, in stile neoclassico, al ritorno di Vittorio Emanuele I il 20 maggio 1814, dopo la sconfitta di Napoleone. Non a caso, sul timpano della chiesa è incisa l’epigrafe ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS, scritta dal latinista Michele Provana del Sabbione. La costruzione di un grande tempio commemorativo era stata decisa dal Comune di Torino, era da situarsi di fronte al ponte di pietra napoleonico, che portava al di là del Po, in direzione contraria alla città, verso le colline. La prima pietra fu posta nel 1818. L’architetto reale Ferdinando Bonsignore s’ispirò per il suo progetto al Pantheon di Roma. Per dare ampiezza alla prospettiva della costruzione, fu disegnata una scalinata alta sette metri e mezzo, in modo che allo sguardo la costruzione sacra non risultasse schiacciata. La chiesa è a pianta circolare; due alti muraglioni fiancheggiano la scalinata e si protendono in avanti, sostenendo le statue della Fede e della Religione, opera dello scultore Carlo Chelli. Anche la facciata e l’interno sono ricchi di statue. La costruzione non fu subito amata dai torinesi, che non ne apprezzarono il tronfio gusto neoclassico.
Le statue della Fede e della Religione portano visibili e indiscutibili simboli esoterici, appartenenti alla Massoneria. Cominciamo dalla statua della Religione, posta sulla destra. All’altezza dell’ampia fronte, su cui un velo poggia, prima di scendere posteriormente al capo, porta il segno di un triangolo con l’occhio divino. È un evidente segno massonico, fra l’altro l’emblema della setta degli Illuminati di Baviera, fondata dal professore e massone tedesco Adam Weishaupt nel 1776. Un angelo s’inginocchia accanto alla statua e porge alla donna le Tavole delle Legge, che i lembi della veste sfiorano. La mano sinistra indica il testo scritto sulle Tavole mentre la destra sorregge una croce. Ai suoi piedi è adagiata una tiara papale.
La donna di sinistra, la Fede, anch’essa assistita da un angelo, regge nella mano destra un libro aperto, mentre con la sinistra tiene alto un calice che, secondo alcune interpretazioni, rappresenterebbe il Graal. Su questa coppa bisogna dire che si è scatenata la fantasia degli occultisti, di alcuni studiosi, si è addensata la curiosità delle persone e la fioritura delle supposizioni. Sebbene la statua non sia dotata di occhi, poiché le palpebre sono chiuse, si è detto che la direzione dello sguardo (senza occhi è già difficile chiamarlo così) segnalerebbe il punto della città in cui sarebbe sepolto l’oggetto sacro, la coppa del Graal. Da qui in poi le fantasie sono fiorite a grappoli.
Quanto all’epigrafe dedicata al Re, anche attorno ad essa si sono scatenate supposizioni, suggerendo che al posto di una traduzione semplice e lineare (“La nobiltà e il popolo di Torino per il ritorno del re”), si potesse leggere il riferimento a un eventuale “Ordine taurino”.
Un’edizione del giornale cittadino, La Stampa, riportava nel 2008 l’ennesima brutta notizia riguardante eventuali messe nere, esercizio di magia nera e altre diavolerie, e questa volta la preoccupante informazione toccava proprio la Chiesa al di là del Po. Si pubblicava notizia nell’articolo di sicuri furti sacrileghi, operati nella Basilica, dove era stato sottratto un messale e l’ampolla contenente l’acqua del Piave, benedetta, conservata a ricordo dei caduti della prima guerra mondiale. Infatti, al piano sotto la chiesa, sotto il pavimento della basilica, è conservato l’ossario con i resti di circa quattro mila ragazzi, caduti in guerra. L’ossario è visibile attraverso un pesante e spesso vetro a forma circolare posto sulla pavimentazione della chiesa, dove molti turisti, sulla scorta di tradizioni provenienti da altri tipi di monumenti, di altre città, gettano monetine, in cerca della benevolenza della fortuna.
Al certo furto si aggiunse, in occasione dello scasso, il ritrovamento di tracce e di segni che portarono al sospetto dell’avvenuta celebrazione di messe nere: segni di cera, sul pavimento tracce del passaggio di almeno una decina di persone, l’altare a fianco del sacrario addobbato per un oscuro rito e per ospitare, forse, un corpo riverso.
L’informazione riportava il pensiero a quell’oscura faccia che la città di Torino fatica a scrollarsi dalle spalle, e che accompagna aspetti più luminosi della sua nomea di città esoterica. Chiaro e scuro, bene e male, magia bianca e magia nera, sono concetti dicotomici che spesso popolano l’immaginario relativo alla città di Torino. Molti detti, alcune leggende, episodi assai particolari, la presenza di speciali oggetti sacri (come la Sindone) e la loro complicata e tormentata storia, l’associazione del nome della città con altre città, come Lione o Londra, a formare geometrie magiche più o meno chiaroscure, tanti fattori, insomma, hanno sempre concorso a formare l’idea di una Torino che, sotto l’apparenza rigida e razionale, nasconde la propensione per il mistero. Occorre dire che la lettura di segni dal significato occulto per la maggior parte delle persone, i segni magici sparsi sotto forme scultoree o figurative sulle facciate di alcuni palazzi, la disseminazione di segni massonici evidenti in molte forme, hanno contribuito a formare l’idea di una città esoterica. Non mi sento proprio di negare che una buona fetta di verità sottenda molte suggestioni.
Anche nel caso dell’edificio di cui stiamo parlando, la Gran Madre, sono evidenti i segni lasciati dagli Ordini Massonici.
Bisogna dire che l’interesse per il Graal era rimasto sopito a lungo, sia nella creatività dei letterati sia in quella degli artisti.

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LA VIA FRANCIGENA

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TRAME E ORDITI DI UNA TELA FAMOSA

TRAME E ORDITI DI UNA TELA FAMOSA

(servizio pubblicato su Oltre, n. 30)

 

Ostendere e osservare nel rispetto

 

Tra i verbi “ostendere” e “ostentare” c’è qualche parentela, poiché entrambi implicano l’atto di mostrare, ma nel secondo caso l’azione si accompagna anche a un certo grado di affettazione.

Non vi è alcuna volontà di esibire chiassosamente la propria fede, invece, nei pellegrini che si avvicinano oggi alla manifestazione del Lino Sacro, o che hanno aderito alle precedenti manifestazioni di Ostensione della Sindone, vivendo un momento culminante e denso di emozione nel loro percorso di fede, vissuto nell’interiorità.

Non ha mai ostentato la Chiesa volontà di considerare il telo, conservato nel Duomo di Torino, come quello stesso telo che nella storia tragica di Gesù servì per accogliere il suo corpo, deposto dalla Croce, dopo che Giuseppe di Arimatea lo ebbe ottenuto dal Sinedrio.

Ancora oggi il Cardinale Poletto, Arcivescovo di Torino, ribadisce il concetto che non tocca alla Chiesa stabilire se la Sindone che conosciamo, e che trova ospitalità permanente a Torino, sia realmente il lino che avvolse il corpo del Cristo dopo le torture e la morte. Ritiene, infatti, che la Chiesa non abbia, e non debba necessariamente avere, la competenza scientifica per arrivare a una conclusione in merito, né assumersene la responsabilità. L’Arcivescovo accoglie tuttavia dalla tradizione l’idea che il lenzuolo sia una reliquia autentica.

Qualche forma di ostentazione, se proprio vogliamo, si legge invece in quei programmi della TV che amano trasformare la rievocazione dei fatti posti all’inizio della storia del cristianesimo come l’elemento “giallo” da ricostruire nello studio televisivo, secondo modalità tipiche della fiction poliziesca, in cui le macchie di sangue, le tracce di DNA, la presenza di pollini esotici, ma anche il numero di spine della corona (o del casco!) di tortura possono costituire elementi imprescindibili per la risoluzione del caso. Accorsi davanti alle telecamere, tutti, scienziati, studiosi, pseudo-studiosi, e quant’altro, affilano il bisturi della loro parola come anatomo-patologi, pronti a vincere all’ultima lama, pur di imporre la loro personale pregiudizievole convinzione.

Niente di tutto questo a Torino. Né oggi né ieri, nello spirito della città.

Basti pensare che l’organizzazione di questa Ostensione ha rifiutato la possibilità di realizzare una apparizione in 3D, come qualcuno avrebbe potuto volere. La Commissione e il Comitato di collaborazione fra Regione Piemonte, Provincia di Torino, il Comune e la Diocesi, fra cui sono presenti anche docenti del Politecnico, hanno ritenuto la tecnica tridimensionale inutile a una migliore fruizione nell’osservazione del Telo. Sulla base delle indicazioni ricevute si sono prese decisioni di rinuncia in tal senso, rifiutando così nel contempo la manifestazione di spinte alla commercializzazione. Ecco dunque, per tornare al nostro tema, un modo di difendere la Sindone da forme di ostentazione.

Per i torinesi la Sindone c’è. E le tributano rispetto. Sia gli uomini di fede, che le si accostano con l’umiltà, la devozione e l’emozione che si provano di fronte a oggetti del proprio culto, ma anche i laici, che le si avvicinano con il riconoscimento che compete alle cose di valore, tributandole l’ossequio dovuto agli oggetti importanti per qualunque culto, depositi culturali fattuali, su cui si addensa l’energia accumulata durante la propria storia.

Così dovrebbe in realtà essere sempre. Così c’è bisogno che sia, oggi più che mai, in tempi in cui il rispetto scambievole fra fedi, culti e culture sembra divenire sempre più difficile, nonostante la facilitazione delle comunicazioni e delle informazioni.

Il Lenzuolo che riceverà la visita di un ingente numero di pellegrini rimane il deposito di un mistero, oggetto esso stesso di misteriosi episodi, sottrazioni, spostamenti, viaggi da oltremare, incendi ripetuti, strane coincidenze, fatti inspiegabili. Un misterioso deposito di misteri, proprio come la misteriosa città che la custodisce.

Pellegrini a piedi, a cavallo e… last-minute

 

Si dice che questa volta la folla sarà esorbitante.

Furono circa 25mila al giorno i pellegrini che si avvicinarono al Lenzuolo sacro nel 1898, dal 2 maggio al 2 giugno. Fu in quella occasione che fu permesso a Secondo Pia di fotografare il telo di 4,36 metri x 1,10. Si ottenne un risultato strabiliante. In camera oscura, infatti, egli vide comparire sulle lastre fotografiche il volto di Gesù.

Nel 1931, dal 3 maggio, la tela fu mostrata per 20 giorni ai pellegrini, ai quali si unirono importanti personaggi appartenenti alla nobiltà, agli ordini militari, cavallereschi e religiosi, che erano confluiti in città per celebrare il matrimonio di Umberto II di Savoia con Maria Josè.

Dal 24 settembre al 10 ottobre durò l’ostensione del 1933, voluta da Pio XI, per celebrare l’Anno Santo Straordinario. Già allora giunsero molti pellegrini stranieri.

Ne 1969 si trattò di una ostensione riservata a studiosi e scienziati, che ebbero il compito di valutare lo stato in cui si trovava il telo, fotografare la Sindone con metodi diversi, a luce infrarossa e ultravioletta, in bianco e nero e a colori.

Il 1973 fu l’anno dell’Ostensione, per così dire, televisiva: la prima ostensione attraverso il mezzo televisivo della storia. Il telo il 25 novembre fu posto verticalmente per agevolare le riprese e il lavoro dei camera-men. In quell’occasione Papa Paolo VI parlò di “misteriosa reliquia oggetto di continui studi”. Fu allora che venne prelevato un campione del Lino sacro per consentire lo studio sulla natura delle sue fibre e delle piccole particelle imprigionate fra le sue trame. Fu così che vennero individuati più di 50 pollini.

Nel 1978 l’Ostensione si aprì nel giorno successivo all’elezione di Papa Giovanni Paolo I (Papa Luciani). L’esposizione durò 40 giorni. Quarantaquattro scienziati si avvicendarono attorno al lenzuolo per attuare studi numerosi e ricerche varie. Un solo test venne in quell’occasione proibito dalla Chiesa, che ne temeva gli effetti distruttivi sulle tracce ematiche: la prova del Carbonio 14. Ma era anche l’unica prova che avrebbe potuto determinare la datazione dell’oggetto.

Il 1998 segnò l’ingresso della Sindone nella Rete; la Messa venne celebrata via web da Giovanni Paolo II, raggiungendo il mondo. L’Ostensione durò 56 giorni.

L’esposizione più lunga fu quella del 2000, che si prolungò per 72 giorni. In quella occasione il Papa volle che i protagonisti dell’evento fossero i giovani, i ragazzi, provenienti da tutto il mondo, molti dei quali proseguirono poi il loro viaggio verso Roma, per la Giornata Mondiale della Gioventù.

Ora, nell’attuale occasione, i pellegrini potranno osservare dal 10 aprile al 23 maggio la Sindone dopo il completo restauro ricevuto nel 2002. Sono infatti rimosse le toppe applicate dalle Clarisse di Chambery nel 1534.

Si avvicineranno per pochi minuti e ognuno di loro vedrà nei segni impressi dalla sofferenza di un uomo il motivo per rinsaldare la propria fede o per interrogarsi sulla funzione dell’umanità su questo pianeta (torturare? mandare a morte?). Questo Telo non manca di suscitare ancora e sempre degli interrogativi sia in coloro che danno credito alla tradizione, che pensa il lenzuolo come il panno che accolse Gesù, sia in coloro che vedono in esso un panno che accolse un uomo, sottoposto a sofferenza e morte, procurate da altri uomini come lui. Quel Telo non mancherà in ogni caso di suscitare riflessioni profonde.

“Davanti alla Sindone, come non pensare ai milioni di uomini che muoiono di fame, agli orrori perpetrati nelle tante guerre che insanguinano le Nazioni, allo sfruttamento brutale di donne e bambini, ai milioni di esseri umani che vivono di stenti e di umiliazioni ai margini delle metropoli, specialmente nei Paesi in via di sviluppo? Come non ricordare con smarrimento e pietà quanti non possono godere degli elementari diritti civili, le vittime della tortura e del terrorismo, gli schiavi di organizzazioni criminali?” Così si chiedeva Giovanni Paolo II di fronte alla Sindone, in un discorso pronunciato il 24 maggio 1998.

E oggi, che si chiederanno i pellegrini?

Dubbi, curiosità, controversie

 

Le tracce di sangue e di pollini non hanno provocato litigi, ma le diatribe sulla prova del Carbonio 14 hanno diviso non solo credenti, storici e scienziati, ma anche scienziati e scienziati. La prova venne eseguita in tre diversi laboratori (Tucson, Oxford e Zurigo) nel 1988. Il verdetto finale bocciò definitivamente la datazione della Sindone, trasferendola d’ufficio dall’epoca in cui (approssimativamente) visse Gesù a uno scorcio d’anni assai più vicini a noi (1260-1390). Ora si litiga perché vi è chi non dà credito a questi risultati, che sarebbero stati inquinati dalle tracce degli incendi subiti dal telo, dalla presenza di funghi e batteri, oppure da una contaminazione di monossido di carbonio.

Ma le notizie curiose degli scettici si susseguono da sempre con buon ritmo.

Il 1 luglio 2009 è comparsa una notizia curiosa sul Corriere della Sera. Si leggeva la tesi di una esperta, Lillian Schwartz, specialista in grafica della School of Visual Arts di New York, la quale affermava che il volto impresso sul telo sindonico non sarebbe quello di Gesù, bensì quello di Leonardo da Vinci. La stessa Schwartz aveva già espresso in precedenza la supposizione che Leonardo avesse usato se stesso come modello per dipingere la Monna Lisa. Schwartz dichiarava: «Abbiamo utilizzato delle scansioni computerizzate e delle sostanze chimiche ad alta sensibilità alla luce, bombardandole con dei raggi solari. Il volto corrisponde con quello di Leonardo Da Vinci». Il maestro avrebbe direttamente lavorato sulla tela con una tecnica d’impressione fotografica ante-litteram. Secondo la Schwartz, avrebbe operato in una camera buia, avrebbe appeso il lenzuolo di lino, cospargendolo di un’emulsione fotosensibile (forse chiara d’uovo mescolata con una sostanza gelatinosa).

Una notizia dell’Ansa dello stesso giorno aggiungeva che Leonardo avrebbe praticato un foro nel quale avrebbe posto una lente di cristallo; infine, davanti alla lente, avrebbe sistemato un busto raffigurante il suo volto. Dopo giorni di esposizione l’immagine della statua si sarebbe quindi impressa, capovolta, sul lenzuolo appeso all’interno della camera oscura.

Per amor del vero ricordo che nel 2005 la rivista francese Science & vie pubblicò un articolo nel quale si raccontavano alcuni esperimenti eseguiti di fronte allo staff editoriale, attorno a un lino, dal quale si voleva ottenere un risultato simile a quello della Sindone. Ho citato quest’episodio, fra altri, nel mio libro del 2006, “Torino, esoterismo e mistero”, che faceva parte di una collana di libri pubblicata da Editoriale Olimpia, casa editrice fiorentina, sulle città italiane con spiccati tratti esoterici. Anche nell’occasione della sperimentazione riferita dalla rivista di trafficò con ossidi di ferro e con gelatina ricca di collagene, collante molto usato dai pittori del passato. Adoperarono un bassorilievo del Cristo straziato dalla Passione e procedettero secondo una tecnica che gli esperti ritenevano essere nota ai falsari del sacro e ai fabbricanti di reliquie fin dal Medioevo. Il risultato ottenuto fu sorprendentemente simile a quello dell’immagine che si può osservare sul Lenzuolo sacro. Non paghi gli sperimentatori sottoposero il lino a potenti e numerosi lavaggi, portarono la temperatura a 250 gradi, immersero il telo in acido citrito e acido acetico…macchè, il risultato restava perfetto.

Il 16 dicembre 2009 “La Stampa” riprendeva una notizia pubblicata sul Daily Mail che esprimeva nuovi dubbi sulla Sindone. Si diceva che un sudario dell’epoca di Cristo era stato rinvenuto nella Città Vecchia di Gerusalemme e esso possedeva caratteristiche molto diverse rispetto a quelle della Sindone conservata a Torino. Il lenzuolo funerario conteneva tracce genetiche che avevano consentito di identificare il più antico caso di lebbra conosciuto. Quanto detto era il risultato di ricerche durate dieci anni durante i quali un gruppo internazionale composto da biologi, genetisti, antropologi e archeologi dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dell’University College di Londra, dell’Università canadese di Lakehead e quelle statunitensi di New Haven e North Carolina avevano collaborato allo stesso studio. Il sudario era stato scoperto presso l’area di Akeldamà, che corrisponderebbe, secondo alcuni, al Campo acquistato da Giuda con i 30 denari.

Alkemadà si trova nei pressi del villaggio di Silvan, a sud della città vecchia di Gerusalemme; in realtà vi fu scoperta una tomba con una sindone alcuni anni prima rispetto alla ripresa della notizia: era il 1999 quando fu scavato nella zona di Akeldamà e fu ritrovata una tomba con reperti interessanti. Era già stata saccheggiata dai ladri di reliquie, tuttavia conteneva ancora reperti notevoli per gli studiosi: ossi, capelli, e parti di sudari funebri. Secondo i successivi risultati scientifici della datazione al radiocarbonio la tomba dove è stato rinvenuto il sudario di Akelmadà risale a un periodo compreso fra l’1 e il 50 dopo Cristo. L’analisi del DNA delle ossa permise tra l’altro di stabilire che l’uomo che era stato sepolto era affetto da lebbra e da tubercolosi. Il panno che lo avvolgeva (in parte ancora attaccato al cranio), e che fungeva da sudario per il viso, era di lana. Ma le stoffe attorno al cadavere, tutte di lana, erano molteplici, tessute con filato torcito, in una trama molto semplice. Caratteristiche tutte molto diverse da quelle della Sindone esposta, in tessuto prezioso di lino, che presenta una complessa trama a spina di pesce e una torcitura tipica dei paesi europei.

 

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MADONNE NERE

MADONNE NERE

(servizio pubblicato su Oltre n. 29)

 

Madonne nere e fra storia e leggenda

Le Madonne Nere sono statue, scolpite nel legno. Per lo più in legno di cedro, talvolta in sambuco fenicio: legni dai notevoli contenuti di oli eterei, dotati di proprietà disinfettanti e antiparassitarie, quindi durevoli nel tempo, grazie alle caratteristiche d’opposizione a tarli, insetti e parassiti di tipo diverso. Anche gli Egizi adoperavano il cedro per costruire le casse in cui inumavano i loro cadaveri, e resine e oli di cedro erano farmaci utilizzati nel processo di imbalsamazione.

Le Madonne Nere non sono, generalmente, dei dipinti: l’icona di Czestochowa, Regina di Polonia, che regna nel santuario nazionale caro ai polacchi, costituisce probabilmente la più famosa eccezione. Il maggior numero di esse appartiene al periodo del Romanico, sebbene ne esistano esempi precedenti, più antichi. Dal Medioevo a oggi sono state oggetto di un fervido culto mariano.

I luoghi dove sorgono le chiese che ospitano (o ospitarono) le Madonne Nere possiedono sempre caratteristiche molto particolari: sono siti megalitici, luoghi sacri a tradizioni religiose e sacre che precedettero quelle cristiane. In quei luoghi preesistette lo svolgimento di culti, di antichi rituali sacri o di feste pagane, vennero commemorate festività annuali dedicate dai popoli (come i Celti) alle loro divinità, dove la presenza femminile era importantissima. E’ possibile talvolta verificare che la sacralità del luogo risale fino al Neolitico (grazie alla presenza di reperti archeologici posti vicino). Sono luoghi a stretto contatto con il passaggio di particolari energie telluriche, segnati dalla presenza di pietre e acque sacre.

Le Madonne Nere possiedono caratteristiche che le rendono somiglianti alle dee pagane assise in trono, e in esse sono riconoscibili simbolismi e segni di più antiche dee. Sono scarne, perturbanti madri in compagnia del loro bambino, che tuttavia appare per lo più privo di caratteristiche infantili, mostrandosi uomo già fatto, un uomo in miniatura. Sono molto diverse dalle altre Madonne, celestiali madri dal manto azzurro, pelle chiara e armoniose forme e proporzioni. Stanno (o stavano in origine) nelle ipogee cripte buie, invece che accanto agli altari delle chiese, come le altre luminose Madonne. Contengono molti misteri, che rimandano a un passato molto lontano.

Sebbene assai antiche, l’interesse culturale e artistico per queste particolarissime presenze delle fede cattolica iniziò a manifestarsi in occidente attorno alla fine dell’800 e proseguì per tutto il secolo scorso, riconfermandosi fino a oggi.

Come ben sappiamo nella religione cristiana non ci sono divinità femminili, tuttavia la Chiesa ha attribuito a Maria, Madre di Dio, molte caratteristiche che in precedenza appartenevano alle dee. Per esempio, la raffigurazione della Madonna – compresa la Madonna Nera – con il figlio Gesù sulle ginocchia, deriva dall’identica rappresentazione di Iside con il piccolo Horus. “Regina del Cielo” era la definizione appartenente a Inanna, antica dea sumera, ma anche alle forme divine Asherah, Astarte o Ishtar: lo stesso appellativo venne in seguito dato alla Madonna. Allo stesso modo i fiori attribuiti alle antiche divinità divennero in seguito i fiori della Madonna. Dunque la Madonna ricevette caratteristiche di antiche divinità, sebbene non le sia stato concesso potere divino; viene venerata nell’ambito cattolico come Madre, e nello stesso tempo come modello di purezza e castità, capace di rappresentare la vittoria dello spirito sulla carne.

Occorre tuttavia considerare che il cristianesimo fu, in principio, una setta del giudaismo, la quale operò il passaggio a vera propria religione in modo graduale, durante un tempo nel quale dovette affrontare plurimi antagonismi religiosi. Fra questi forte era l’influenza della religione della Grande Madre Cibele (accompagnata dal figlio/amante Attis), nella quale si praticavano forme di iniziazione sanguinolente e cruente (i sacerdoti si castravano). Anche nella religione di Iside, divinità consolatrice e amorevole, si osservava la presenza di un fratello/sposo, Osiride, e del figlio Horus. Se sono evidenti i legami del Cristianesimo nascente con i culti dello stesso periodo, vi è oggi una certa indulgenza, nelle forme di pensiero contemporaneo che amano rimestare un po’ nell’esoterico, nel coltivare la suggestione della relazione fra le Madonne Nere e personaggi chiave del primo cristianesimo, oppure con movimenti eretici del passato, con accadimenti storico-religiosi, con antiche leggende appartenenti a culture diverse. Uno di questi filoni collega le Madonne Nere e la figura di Maria Maddalena.

Un’opera letteraria recente, “Il Codice Da Vinci” di Dan Brown, divenuta best-seller, da cui in seguito è stato tratto un film, ha posto l’attenzione dei suoi numerosi lettori, seppur sotto la forma del romanzo, sul collegamento fra Gesù e Maria Maddalena, cui Pietro avrebbe sottratto la guida della Chiesa. Nella storia di Brown (ma precedentemente anche in un corposo saggio, per niente romanzesco, di Baigent, Leigh e Lincoln – Il Santo Graal: una catena di misteri lunga duemila anni, dall’unione matrimoniale di Gesù con Maria , simbolismo del colore neroMaddalena avrebbero visto la luce i discendenti della stirpe reale Merovingia. Nel romanzo di Brown il corpo di Maria Maddalena, e i relativi documenti di testimonianza, sarebbero stati custoditi dai Templari e in seguito dal Priorato di Sion. Maria Maddalena avrebbe portato con sé il frutto del suo grembo, dalla Palestina fino alle coste di Provenza, fino a Les-Saintes-Maries-de-la Mer, dove al delta del Rodano sarebbe approdata con una barchetta, in compagnia di Maria Salomé, Maria Jacobé e di Sara la Nera.

Del resto la leggenda che collega la località della Camargue con le tre donne è piuttosto antica e nella realtà odierna la devozione che riguarda Sara, patrona dei gitani, cui è dedicata la statua situata di fatto nella cripta della chiesa-fortezza del paese, è assai intensa, tanto da costituire la meta di un intenso pellegrinaggio devozionale da parte dei gitani di tutta Europa.

Se torniamo invece dalla realtà al romanzo di Brown veniamo a sapere che il seme del Re dei Re sarebbe, sempre nella visione dell’autore, divenuto il fondatore della stirpe merovingia: ecco l’ipotetico collegamento con il sang real, con il Santo Graal.

Fu proprio nel periodo merovingio (e qui passiamo nuovamente dalla leggenda alla storia), vale a dire dal 500 al 750 d.C. che risale la costruzione dei santuari francesi dove risedettero le prime Madonne Nere, che in questa versione adombrerebbero la figura della Maddalena.

Un secondo filone ama scandagliare fra i dati archetipici comuni sia alle Madonne Nere sia alla sacre pietre nere della cultura araba, venerate già dalle genti preislamiche, fra le quali la più nota rimane quella della Mecca. In questo baitylos (o pietra eretta) si venerava, in un’astratta forma, lo spirito della dea Al’Lat. La venerazione delle pietre nere, considerate sacre, è una tradizione che appartiene anche all’Europa pre-cristiana: le pietre venivano venerate non già come idoli, ma come punti accentratori e condensatori di energie divine.

Ma perché sono nere?

 

Nel 1937 fu pubblicato uno dei primi studi sulle Madonne Nere: Etudes sur l’origine des Vierges Noires di Marie Durand-Lefèbre, in cui si fa strada un’ipotesi fondamentale, valida ancora oggi, riguardante la continuità delle antiche divinità femminili pagane, antecedenti il cristianesimo, e le Madonne Nere. Il concetto venne in seguito ripreso da Emile Saillens nell’opera Nos Vierges Noires, leur origines, pubblicato nel ’45. E’ infatti provato che al tempo delle Crociate dall’Oriente furono portate molte statue raffiguranti antiche dee pagane, cui fu attribuito lo status di “Madonna”, insieme a un nuovo nome. In particolare furono Artemide, Cibele, e soprattutto Iside le dee resistenti nel tardo paganesimo, a ricevere la nuova attribuzione.

Nel 1972 Jacques Huynen in L’Enigme des Vierges Noires sviluppò soprattutto il suo interesse per gli aspetti esoterici del culto delle Madonne Nere, centrando l’attenzione sul periodo del Medioevo, quando la storia legò alcuni misteri degli alchimisti con i segreti dell’Ordine del Tempio. Appare evidente, fino a qui, dai nomi degli autori e dai titoli delle opere, che è la Francia il luogo in cui soprattutto si sviluppò lo studio sulle Madonne Nere.

Moss e Capannari, autori di un saggio successivo, In Quest of the Black Virgin: She is black because she is black (contenuto in Mother Worship, pubblicato negli Stati Uniti nel 1982), pongono finalmente attenzione anche alle Madonne Nere italiane. E’ dell’85 la prima pubblicazione di Ean Begg (The Cult of the Black Virgin, pubblicato dapprima nel Regno Unito). Nel ’99 esce Schwarze Madonnen di Petra Cronenburg, ora in italiano (Madonne Nere. Il mistero di un culto).

Ma insomma, ci chiediamo, perché queste particolari Madonne sono nere?

La Chiesa Cattolica ha spesso addotto come causa del colore delle Madonne Nere quella del fumo delle candele nelle chiese o una prolungata esposizione agli agenti atmosferici, oppure l’ignoranza stessa degli scultori alle prese con le proprie opere, che avrebbero ipotizzato, del tutto erroneamente, la caratteristica della pelle scura nelle genti di Palestina, terra da cui aveva preso avvio la storia del Cristo e della Madonna sua madre. Quest’ultima ipotesi è pienamente contraddetta dalla conferma della conoscenza storica che gli europei possedevano fin dal ‘600 dell’Oriente, sostenuta dalla familiarità, spesso diretta, che i popoli europei mediterranei avevano con ebrei e saraceni.

E’ altresì da scartare l’ipotesi che siano stati scultori medio-orientali ad aver intagliato le opere, perché è verificato che in Asia e in Africa non si è mai affermata nessuna tradizione di raffigurazione della Madre di Gesù con la pelle scura: al contrario, viene sempre raffigurata con la pelle molto più chiara di quella delle popolazioni locali.

Allora: perché le Madonne sono nere?

Un filone interpretativo suggerisce di ricercare la spiegazione nel collegamento fra le brune statue e le femminili divinità pagane, delle quali queste Madonne avrebbero ereditato sul piano iconografico molti attributi. E il nero, dal punto di vista simbolico, è un colore ricco di molti significati. E’ il colore che assorbe la luce, evoca le profondità, le viscere della terra. Così, sul piano psicologico, rappresenta le parti profonde dell’essere, quelle che, non emerse alla luce, determinano la più profonda realtà della sfera psichica dell’individuo: l’inconscio. Rappresenta altresì le ricchezze del sottosuolo che, peraltro, hanno colore nero, come il carbone o il petrolio.

Nella nostra cultura il nero è il colore del lutto, a rappresentare quella fase dopo la morte, di rigenerazione e trasformazione del corpo, affidato alle forze delle profondità della terra, al mondo ctonio: in questo senso diviene innegabile il suo legame con la morte. Il mondo ctonio era nel mondo antico legato alle divinità femminili, alle “madri”, capaci di generare e rigenerare nell’utero primordiale della terra, è il colore che nell’Antico Egitto e in tutta l’Africa rappresentava e rappresenta la fecondità. Così, nere erano le rappresentazioni delle antiche dee Madri: nere erano Iside, Cibele e talvolta Afrodite.

L’immagine cristiana della Madonna Nera si fonderebbe dunque, secondo questa interpretazione, sul sostrato di un retaggio culturale molto più antico, che unirebbe la figura cristiana ad alcune forme rappresentative di dee “Madri”, così che in esse sarebbe convissuta lungamente la compresenza di caratteristiche delle figure sacre appartenenti a forme religiose diverse, succedutesi l’una dopo le altre.

Che stranezze. Madonne Nere e bizzarrie

 

Quante stranezze nelle Madonne Nere! Piacciono molto a certi laici, tengono impegnati in discussioni anche i protestanti, solleticano e disturbano, a seconda dei casi, le persone dotate di fede.

Una cosa è certa: non lasciano indifferenti. Conosco persone che affermano in tutta franchezza di essere molto infastidite quando si trovano al cospetto di una Madonna Nera. “Magari prego pure”, mi racconta un’amica “ma possibilmente senza guardarla”, l’ho sentita affermare. La persona non sa spiegare la ragione del suo turbamento, ma lo ammette senza reticenze. Non è l’unica che personalmente conosca.

Anche la Chiesa fu spesso imbarazzata da queste rappresentazioni, talvolta di provenienza dubbia, dotate di alcune caratteristiche che le rendono, in più di un caso, grottesche e che sono difficilmente “controllabili”, per molte ragioni. Intanto perché fanno un sacco di miracoli, o li hanno fatti nel passato. Interpretabili come archetipi psicologici, come Jung ci ha mostrato, si uniscono attraverso un lungo filo della storia a un tempo in cui femminino e deità femminili avevano ben diverso valore nell’Antica Europa, prima dell’affermarsi delle grandi religioni monoteiste –ebraismo, cristianesimo, islamismo, portatrici di divinità esclusivamente maschili e responsabili dello spodestamento delle più antiche religioni di traccia femminile.

Strane, queste Madonne Nere che oggi sono in grado di suscitare un senso di spiritualità, condiviso da donne ma anche da uomini di tutto il mondo, di tutte le fedi e le religioni, che sembrano unire in una rete di fratellanza, nella forma di una sorta di sciamanesimo cibernetico, attraverso la rete Internet, persone di tutto il mondo. E a dimostrazione basti visitare i siti e i blog, in molte diverse lingue, riguardanti l’argomento. E’ proprio dalle Rete, ma non solo, che si trae l’immagine della Madonna Nera come simbolo unificante, che interessa sia le correnti spirituali neopagane sia le correnti più sensibili allo spirito mariano interne al cattolicesimo.

Ma le stranezze non finiscono qui. Ci sono madonne nere, o per meglio dire statue di Madonne Nere, che in origine non erano affatto nere, altre che lo divennero grazie a esperte tecniche, quali il marouflage, a alcune – poche – che manifestano tutt’oggi l’oscurità che possedevano all’origine, e sono quelle, se mi si consente il gioco di parole, più chiare di tutte. Mi spiego meglio. Esistettero statue un tempo nere che furono restaurate in modi che oggi fanno inorridire, assumendo colorini da legni acerbi: veri sacrilegi del restauro! Al contrario ci furono casi in cui una bella pittura, favolosamente orientaleggiante, fu applicata a certe statue a fini, per così dire, turistico-religiosi (il marouflage era una tecnica con cui il colore veniva applicato con una mistura di colla). E poi ci sono le Madonne Nere autentiche, che sono per lo più un fenomeno artistico-religioso legato al romanico e al primo gotico. In Occidente iniziarono a essere scolpite attorno al 1050, fino al XIII secolo; la maggior parte delle statue oggi rimaste appartiene al XII secolo.

Un’altra stravaganza? Siedono, in trono, per lo più lungo le strade che percorrevano i pellegrini diretti a Compostela. E siedono, nelle loro cripte, in trono, come si addice alle Regine.

Tengono in grembo il loro piccolo che – altra stranezza! – è sempre rappresentato in dimensioni molto ridotte, ad accrescere il potere della madre. E poi, come ulteriore bizzarria, qualche volta il figlio non è un bambino, ma un uomo in miniatura, un ometto.

Ma osservate le mani delle Madonne Nere: sono enormi, con dita molto allungate, e la Madre le tiene distanti dal bambino. La mano è gigantesca, distesa e imposta, nell’atteggiamento atto a trasmettere energia, come si compete a una maestà femminile creatrice, che può trasmettere magicamente le proprie forze.

Altra stravaganza? Gli abiti. Spesso preziosi, tempestati di gemme, ricchi di somiglianze con l’arte egizia. Sono vestite di rosso e di verde, ben diversamente dalla Madonna “bianca” che porta il famoso azzurro manto mariano. In alcuni abiti permangono tracce di oro. Hanno lo sguardo che fissa un punto molto lontano: si suppone fosse un punto preciso nelle cripte nelle quali sempre, originariamente, erano collocate (spesso sono situate nelle cripte ancora oggi, ma talvolta sono state spostate dal posto originario).

E tuttavia non vi si riconoscono simboli cristiani.

La sopravvivenza delle statue originarie si è rivelata, nel corso della storia, piuttosto difficoltosa, a causa di restauri selvaggi, furti, enigmi di sparizioni, sostituzioni con copie, violenze (soprattutto in Francia, ad opera degli ugonotti e dei rivoluzionari), logoramenti, incuria, eccessiva prudenza (o diffidenza?) della Chiesa, vicissitudini di vario genere. Ciò malgrado oggi troviamo Madonne Nere – quasi cinquecento, quasi tutte statue e pochi dipinti – in Algeria, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Egitto, Filippine, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Messico, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Scozia, Spagna, Svizzera, Stati Uniti, Turchia, Ungheria.

La Madonna Nera d’Oropa

 

Risale ad alcuni anni orsono la ricerca che contava il numero delle statue di Madonne Nere in Piemonte, riferendo ben 61 presenze. E sebbene la terra più ricca di questi reperti rimanga la Francia, non si tratta certo di un numero esiguo, il quale fa parte di un ben nutrito catalogo di Vergini brune sparse in tutta la nostra penisola.

Una leggenda accompagna la storia della Madonna del Santuario d’Oropa. Si narra che Sant’Eusebio, di ritorno dalla Terra Santa, avrebbe portato con sé due sculture della Vergine eseguite dall’evangelista Luca. Avrebbe lasciato una statua a Oropa e l’altra a Crea. Il Santuario della Madonna di Oropa sorge vicino a Biella, a poco più di mille metri di altitudine. E’ un santuario mariano situato in un’area interessante di per sé dal punto di vista geologico, su di una conca che si è formata dalla lingua di un ghiacciaio, ritiratasi in seguito alla fine dell’era glaciale, circondata da montagne. Il santuario comprende un sacro monte (il Sacro Monte di Oropa), dichiarato nel 2003 patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

Il complesso è articolato su tre piazzali a terrazza ed è imperniato su due grandi luoghi di culto: la basilica Antica, realizzata all’inizio del XVII secolo, e la Chiesa Nuova. Completano la struttura monumentali edifici, chiostri e la solenne scalinata che conduce alla porta regia. La Statua della Madonna Nera misura m. 1,32 di altezza ed è in legno di cirmolo (pianta resinosa).

  Sebbene la tradizione agiografica, riguardante Sant’Eusebio, non goda di alcuna documentazione che la provi, sappiamo che Eusebio diffuse il Cristianesimo e la devozione mariana nelle valli biellesi. La statua gotica della Madonna Nera che si venera nel santuario risale alla prima metà del Trecento: le sono attribuiti numerosi miracoli.

 La Madonna Nera di Oropa, contrariamente a quanto si riscontra nella Vergini nere del periodo romanico (raffigurate sedute in trono a simboleggiare la Sedes Sapientiae, secondo l’interpretazione cristiana), viene presentata in piedi con il Bambino seduto sul braccio sinistro, a sua volta benedicente (con la mano destra) e con l’uccellino (simbolo della Passione), nella mano sinistra. Stilisticamente questa statua sembra appartenere all’area aostana e la sua fattura data attorno al 1295.

La Vergine porta nella mano destra, si potrebbe dire sulla punta delle dita allungate e raccolte, una melagrana, frutto caro alle dee madri, che rappresenta l’energia della fertilità e della vita. Ricco al suo interno di numerosissimi semi, la melagrana infatti rappresenta la fecondità, l’abbondanza e l’opportunità di assicurare la generazione. La Madonna Nera di Oropa, in accordo con il senso della melagrana, sembra essere visibilmente incinta.

Nell’anno in corso si è svolto il 60° anniversario della Peregrinatio Mariae, vale a dire il ‘viaggio’, durato mesi, della statua originale fuori dal santuario che la ospita abitualmente, fra la gente, avvenuta nel 1949: oggi, in occasione di questo anniversario, è stato raccolto in un volume un vasto materiale fotografico di memorie della Madonna Pellegrina, che costituisce una preziosa documentazione del culto della Vergine Bruna. Poiché i protagonisti della storica Peregrinatio, sessanta anni fa, furono i biellesi, il volume che oggi Oropa ci consegna è un documento storico davvero interessante. Così possiamo vedere immagini in cui faticosamente la Madonna Pellegrina viene spostata su strade sterrate, in mezzo a pantani mal percorribili, seguita da fiumane di uomini, donne e bambini, dove visi, portamenti, acconciature, abiti, accessori, sguardi e…veicoli denotano l’appartenenza ad altri tempi.

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Zerogrammi per essere leggeri

Zerogrammi per essere leggeri

(articolo pubblicato su Oltre n. 29)

Danza? Mimo? Teatro? Poesia? Forse un po’ tutto, nelle performance di Zerogrammi.

Cominciamo col dire che sono storie, narrazioni. Storie narrate con il corpo, senza parole, con molteplici suggestioni gestuali e corporee, con riferimenti sonori e ritmici appropriati, persuasivi, con una cura speciale per il rapporto fisico con lo spazio e con il tempo e la sua scansione ritmica e metrica, espressa attraverso l’attenzione per ogni frammento di movimento.

Il corpo è quello dei due protagonisti. due ragazzi, Stefano Mazzotta e Emanuele Sciannamea, entrambi coreografi e danzatori.

Corpi muscolosi, atletici, competenti, come quelli dei danzatori. Virili nell’energia che emanano, ma duttili anche nell’immaginarsi immersi in personaggi rappresentanti il genere femminile, di cui sanno cogliere qualche stereotipia, e di cui forniscono una lettura psicologica, attraverso l’attenzione per piccoli movimenti e piccoli gesti di storie apparentemente quotidiane.

La mimica del volto va oltre la danza: è già teatro. Il linguaggio nel suo complesso, tuttavia, è quello poetico. E in ciò essi assomigliano a tanti altri gruppi contemporanei, capaci di sperimentare, di fare ricerca, sul limite delle arti, con una caratteristica comune che li segna: la voglia di poesia.

A loro piace anche sentirsi un po’ clown: “Amiamo sentirci dei clown, caratteri possibili e improbabili al tempo stesso”, dicono di sé. E continuano: “Questo è il genere di verità che ci preme proporre sulla scena, che va al di là delle complesse criptiche astrazioni che spesso si accompagnano al linguaggio contemporaneo”. Al linguaggio dei clown appartiene un ulteriore dato che li caratterizza: il gusto per il paradosso, per il grottesco. E per cogliere questo lato delle cose attingono al patrimonio culturale che evidentemente caratterizza la loro formazione. Si tratta, in questo caso, degli aspetti di una certa cultura “meridionale”, anzi, proprio regionale: quella pugliese. “Le nostre origini meridionali rappresentano una fonte inesauribile di suggerimenti”, affermano.

Lo si vede con chiarezza nei loro spettacoli: quasi si sente la suggestione olfattiva dei ceri delle chiese, del sudore dei pellegrini in processione. Lo si sente dai suoni che sono scelti ad accompagnare i loro movimenti in scena. Lo si vede dai colori, quando è il nero a predominare sulla scena, il nero della terra madre, ma anche il nero imposto lungamente alle donne nelle tradizioni del sud.

Va detto che le donne hanno un posto speciale nelle rappresentazioni di Zerogrammi. Sono le protagoniste di INRI, in cui vediamo due vecchiette immerse nei loro riti di culto, così vere nelle loro dipendenza da un dio da divenire paradossali, e paradossalmente oggetto dell’attenzione particolare del loro dio – dio maschile e conduttore del gioco – persino nell’intimità della loro casa.

Vediamo una donna essere protagonista di una performance il cui titolo significa “cianfrusaglie”: Mappugghie. In questo spettacolo, nella sua forma in progress, la parte della protagonista è affidata, diversamente che nelle altre performances, a una attrice/ballerina, Chiara Michelini, per la coreografia di Mazzotta e Sciannamea. Lei è Penelope, la Penelope di Ulisse, che noi ben conosciamo attraverso l’Odissea. Qui si gioca con il mito dell’attesa paziente di una donna innamorata, secondo un’interpretazione che in letteratura ha solleticato in precedenza l’ispirazione di molti autori. Penelope aspetta. Aspetta oggi, seduta su una sedia, qualche volta abbandonata ad atteggiamenti un po’ sciatti, spettinata, come capita a chi, non visto fra le mura della propria casa, sembrerebbe non avere un granché da fare. Aspetta e si fa un caffè. Poi magari un altro; tocca gli oggetti della vita quotidiana, e molti sentimenti si accompagnano all’atto dell’attesa. Ma anche i pensieri si accavallano, tra un piatto da lavare e un paio di mutande di cui occuparsi.

Gli Zerogrammi dicono: “La poetica di Zerogrammi vuole restituire alla danza la leggerezza”. Hanno centrato il loro obiettivo. Se ne sono accorti anche i giudici dei numerosi concorsi di danza cui hanno partecipato, riportando a casa numerosi soddisfazioni e primi premi.

Ora propongono per la stagione 2009/ 2010 lo spettacolo che porta il loro nome Zerogrammi, che ha vinto il Premio Miglior spettacolo Giocateatro 2009 e il Primo Premio di Coreografia al Festival Oriente/Occidente. Ripropongono INRI, creazione del 2008. Inoltre hanno in cartellone Mappugghie, coprodotto con il Centro des Artes Performativas do Algarve Devir-Capa in Portogallo.

 

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Intervista ad una campionessa di snowboard

Cristina Tuberosa. Intervista ad una campionessa di snowboard

(articolo pubblicato su Oltre n. 29)

Cristina Tuberosa, campionessa di snowboard, è nata e cresciuta a Locana, 26 anni fa, in frazione Fey. Il suo nome di battaglia è Heidi, così la chiamavano già da ragazzina: era ‘la ragazza dei monti’. Con la tavola (e senza) ne ha fatta di strada la ragazza dei monti!

Heidi, o Cristina, se preferisci, quando ti sei avvicinata alla tavola per la prima volta?

Cristina: La prima volta che mi sono allacciata una tavola da snowboard è stato otto anni fa sulle piste di Ceresole Reale. Mio fratello Matteo praticava snowboard già da alcuni anni e dopo tante stagioni sugli sci ho deciso di provare anch’io. Non è stato facile trovare subito il materiale tecnico, soprattutto degli scarponi taglia 38. Erano pochissime le ragazze che facevano snowboard, soprattutto sulle piste di Ceresole e dell’Alpe Cialma.

Tu sei nata a Locana, vero, dunque è proprio sulle piste ‘di casa’ che hai cominciato. E’ stato amore a prima vista? Ti sei trovata subito bene sulla tavola?

Nonostante all’inizio mi fosse sembrato uno sport impossibile, fatto solo di continue cadute e lividi, mi sono appassionata, ho deciso di continuare e di provare a migliorarmi sempre.

Mi chiedo sempre dove troviate il coraggio voi riders; quando vi guardo provo una grande ammirazione ma anche quel sentimento di timore con cui le persone più ‘grandi’ guardano ai giovani spericolati. Non posso fare a meno di chiedermi se non proviate paura. Ma vi rendete conto dei pericoli?

Non posso negare che sia uno sport rischioso e certamente non femminile. In questi anni ho riportato parecchie fratture, alcune anche gravi, come quando nel training prima di una gara in Veneto mi sono fratturata l’omero del braccio sinistro e ho passato il capodanno in ospedale ad Ivrea, dopo aver subito una lunga operazione. Quella brutta caduta mi è costata tutta la stagione invernale, 4 mesi di ferri esterni e 6 mesi di fiosioterapia. Ad ogni frattura mi riprometto di smettere e lo prometto sempre anche a mia madre, anche se poi torno sempre sulla tavola.

Credo di non avere difficoltà a identificarmi con tua madre, con i tuoi genitori. Immagino i loro stati d’animo, probabilmente divisi fra l’orgoglio di avere una figlia del tuo calibro sportivo e il terrore di saperti sulle piste o in gara. Che cosa ti dicevano i tuoi genitori?

I miei genitori hanno sempre visto la mia passione come qualcosa di negativo perché mi distraeva dalle mie priorità, come lo studio e perché è un’attività ad alto rischio. Anzi, a dire la verità hanno sempre osteggiato questa mia passione, ritenendola una perdita di tempo e uno spreco di energie.

Già, ma tu non sembri un tipo facilmente influenzabile. Devi essere piuttosto tenace. Ma come nasce questo soprannome, Heidi?

Il soprannome “Heidi” mi segue fin dalla scuola media, credo. O forse da sempre. Sono cresciuta in una piccola frazione del comune di Locana di nome Fey, nello splendido scenario delle montagne del Parco del Gran Paradiso, e per questo sono diventata “Heidi”. Nell’ambiente dello snowboard sono conosciuta con questo nickname e in pochi sanno qual è il mio vero nome. Anche il mio ragazzo, Mattia, che sta frequentando il corso maestri per diventare maestro di snowboard, con il quale ho una relazione da più di tre anni, per il primo mese nel quale ci siamo frequentati ha creduto che quello fosse il mio vero nome.

Ma si può vivere di solo snowboard? E com’è l’esperienza dello snowboard vissuta al femminile?

Purtroppo non sono mai riuscita a fare il salto per diventare una vera professionista, per tutta una serie di ragioni, molte delle quali purtroppo non sono dipese da me. In Italia lo snowboard, soprattutto quello femminile, non è ancora una disciplina di cui si possa vivere, sono ancora pochissimi gli atleti che ricevono uno stipendio per le proprie performance e che quindi si possono permettere il lusso di dedicarsi solo ed esclusivamente agli allenamenti e alle gare. Tutti gli altri, come me, cercano di crearsi delle vite pressoché “normali”, con dei lavori funambolici per poter trascorrere il maggior tempo possibile sulla neve. Attualmente in Italia solo una ragazza vive di snowboard, per tutte le altre è una continua battaglia. Anche lo spazio riservato a noi ragazze per competizioni, sponsor e riviste è minimo. In Italia è purtroppo ancora uno sport fortemente maschilista e il sesso femminile è fortemente discriminato.

So che tu ancora studi, ma anche che ti sostieni con un lavoro; come riesci a conciliare tutto: allenamenti, studio, lavoro, e a quanto pare anche amore?

Per potermi dedicare alla mia passione ho dovuto cercare di far quadrare lo studio universitario, i lavori stagionali per potermi mantenere, i rapporti con la mia famiglia e la mia relazione sentimentale. Non è stato semplice, ma le soddisfazioni sono state tante, soprattutto durante le competizioni all’estero.

Secondo te la situazione dello snowboard femminile è diversa in Italia e all’estero? Ci sono maggiori possibilità in ambiente internazionale?

Al di fuori dell’Italia la situazione è totalmente differente: ci sono competizioni di livello internazionale specifiche solo per ragazze, con alti montepremi e grande riscontro mediatico. All’estero la selezione è molto più dura che in Italia, perché il livello femminile è più alto, come anche il numero di ragazze che fanno snowboard. E’ quindi più difficile essere sponsorizzate, ma gli sponsor seguono i propri atleti a 360°, mentre non è così in Italia, dove la maggior parte delle cose sono lasciate alla determinazione degli atleti e alle loro povere finanze. Non esistono ancora veri e propri club per la preparazione agonistica che seguono i ragazzi durante la loro crescita sportiva.

Mi racconti una delle tue giornate tipo?

Una mia giornata tipo è: sveglia presto per poter studiare, una bella colazione sostanziosa e poi di corsa in pista. Un po’ di riscaldamento prima da fermi e poi in pista e infine, finalmente, nello snowpark, un’area attrezzata per poter praticare salti e rail (slopestyle, è la mia disciplina) in sicurezza e su strutture predisposte. All’incirca trascorriamo in park dalle due alle quattro ore, a seconda della condizione fisica e meteo. Non esistono allenatori, purtroppo (!). Non sono seguita da nessuno. Cerco di imparare nuove manovre dagli altri rider, attraverso video e riviste specializzate. Provo e riprovo un trick mille volte, finché non riesco a chiuderlo. Naturarmente, man mano che il livello sale, anche le strutture diventano più grosse, complesse e rischiose. Spesso i salti possono anche raggiungere i 18/20 metri di lunghezza. Proprio per questo è necessaria tutta una preparazione atletica pre e post neve. Io sono fortunata, per questo aspetto sono seguita dal mio ragazzo che è laureato S.U.I.S.M. e mi organizza la preparazione fisica in palestra e in piscina. Pratico inoltre yoga, perché è un attività estremamente utile per il controllo delle differenti parti del corpo, per l’allungamento muscolare e per la concentrazione mentale. Come ho già anticipato, ho una relazione da più di tre anni con Mattia, un ragazzo che ho consciuto a Torino durante l’università e con cui condivido la passione per questo sport.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro: penso alla vita sulla tavola ma anche a quella con ‘i piedi per terra’ (dal momento che anche questi non ti mancano proprio)?

Sono una ragazza con i piedi estremamente per terra: per questa nuova stagione il mio impegno sullo snowboard sarà limitato perché sto per intraprendere un master in European Business presso la ESCP-EAP di Torino. Lo snowboard mi ha dato tanto, ho vissuto esperienze di vita meravigliose in Italia, in Europa e anche dall’altra parte del mondo (Nuova Zelanda), prima con il marchio Burton ed ora con Bataleon. I miei sponsor (Bataleon, Celsius, Nikita, Doors e Backdoor shop) mi hanno aiutata a realizzare tanti sogni, ma non sono più una ragazzine e devo iniziare a pensare anche al mio futuro.

Siamo certi che il tuo futuro personale sarà pieno di realizzazioni, dal momento che creatività e pragmaticità non ti mancano. E che cosa immagini tu nel futuro dello snowboard?

La mia unica speranza è che lo snowboard, soprattutto quello femminile, diventi presto anche in Italia una disciplina riconosciuta e regolarizzata, che il numero delle ragazze che lo praticano cresca in maniera esponenziale e che venga data la possibilità alle ragazze più meritevoli e talentuose di poter vivere della propria passione. Lo snowboard non è semplicemente una disciplina sportiva, ma un vero e proprio stile di vita.

 

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